mercoledì 25 novembre 2020

Poesia, unica cura. Ovvero: l'elogio dell'inutile

Da piccolo sognavo di essere una macchina: pragmatico, efficiente, privo di inutili emozioni e sentimenti, proiettato alla perfezione.
Da piccolo ero un coglione!
Ho impattato contro il mondo moderno, la realizzazione di questo mio sogno giovanile e mi sono reso conto di quanto sia malato, distruttivo e privo di qualsivoglia senso. Noi siamo creature di carne e sangue, costretti dalla genetica e dall'ambiente a vivere secondo dettami, che oggi, nell'era della tecnica e del mercato, sembrano essersi persi. Tutto è codificato, tutto ha uno scopo, tutto è puntato verso strambi obiettivi, che ormai fatico a capire. Siamo animali privi di istinto, immersi nelle nostre pulsioni, ma si fa di tutto per sublimarle con altro, seguendo bizzarre idee che ci hanno inculcato da bambini, anziché succhiare il midollo della vita.
Quando è stata l'ultima volta che si è fatto qualcosa di assolutamente inutile, privo di scopo, per il gusto di farlo? Quando è stata l'ultima volta che si è vissuto un momento, senza pensare alle conseguenze o al guadagno (in senso lato)?
Se mi guardo indietro, prima di questo autunno è accaduto pochissime volte. Adesso sta diventando una piacevole regola: ho scoperto la poesia, nella sua forma più alta.
Cosa significa vivere, se non ci si perde a guardare un tramonto, con gli occhi sognanti e l'espressione da pirla? Che senso ha interagire con una persona, da dietro un muro? 
Molti risponderebbero che sia la paura a frenarci, ma avrebbero torto. Siamo condizionati dal vivere quotidiano, che ci vuole macchine efficienti, in perenne conflitto darwiniano coi nostri simili (con tanti saluti al concetto di comunità) e con le nostre pulsioni, chiusi in una gabbia invisibile, convinti di essere liberi, ma carcerieri di noi stessi.
Il tempo ben vissuto per il futile si sta perdendo. Si parla di spendere tempo, di ragione (che ho scoperto che nella sua etimologia indica il corrispettivo, il guadagno), di traguardi, ma mai di piacere, nella forma più alta del termine, di vivere. Persino il meraviglioso be foolish, be hungry di Jobs, alla fine, è un invito ad aderire a questo mondo pazzo.
Osserviamo tramonti, per scattare foto e guadagnare like su instagram, anziché nutrire l'anima di bellezza e poesia e condividerla senza scopo. Torniamo all'inutile.
Andate da chi vi ha spezzato il cuore e donatele una rosa, per ringraziarla di avervi donato emozioni forti. Saranno anche state dolorose, ma erano vere e non chiedetevi perché lo abbia fatto: il passato è andato e il futuro incombe, con altre persone, altri amori. Andate da chi vi fa battere il cuore e ditele quanto lo fa battere. Fate sapere a chi vi ha fatto del bene e a chi vi ha fatto del male come vi ha fatto sentire e ringraziate o insultate, in modo genuino. Abbiate la volontà di amare e odiare, senza vergogna e senza scopo, per il piacere di sentir battere il cuore, farlo ardere come una stella e condividere quella scintilla. Rivolgete la parola ad estranei e condividete le vostre storie e le vostre impressioni (che termine meraviglioso impressione). Usate le parole che vi nascono dentro, perché sono vere e se il vostro lessico non ha i termini per descrivere ciò che avete dentro: inventatene di nuove!
Un maestro Zen disse: "praticare lo zazen è inutile". Una volta compreso il senso di quella frase, non si può fare altro che sedersi come Buddah davanti a un muro e iniziare a respirare. 
È inutile passare una serata ad ascoltare musica. È inutile passare ore al telefono con una persona appena conosciuta, scambiandosi frammenti di vita. È inutile restare fissare un'opera d'arte. È inutile la bellezza. È inutile la poesia. È inutile amare, corrisposti o no. È inutile l'amicizia senza scopo. È inutile sedersi sotto un albero a contemplare l'immenso. È inutile disegnare. È inutile scrivere le proprie impressioni. È inutile far sapere ad una persona che ti manca. È inutile dire a una persona quanto sia bello il tempo trascorso insieme. Quante cose meravigliosamente inutili si potrebbero elencare: tutte assolutamente necessarie! In tutto questo non c'è scopo o guadagno, secondo la visione moderna, c'è solo una vita vissuta.
Studiate le leggi del mondo e dimenticatele. Fate indigestione di filosofia e bruciate quei libri. Scrivete poesie e donatele al vento, affinché le porti lontano, senza domandarvi se saranno lette o perse.
Abbandonate i ruoli. Alla domanda "chi sei?" non rispondermi con il tuo lavoro, i tuoi passatempi o altri orpelli. Rispondi con il tuo nome, quello imposto o quello scelto e dammi aggettivi e verbi. Rispondimi sono un sognatore, un pigro, perdo tempo, etc ed io ti abbraccerò forte, ringraziandoti del dono meraviglioso che mi hai dato: la tua poesia.
Poesia deriva dal greco ποιέω (poieo) che significa creare. Solo il poeta crea, perché lui ha il dono della parola e senza la parola anche la tecnica muore e nel momento in cui si usano le proprie parole si crea la propria poesia e si crea il mondo. Non è un caso se nella tradizione ebraica il creatore inventa prima l'alfabeto, poi il mondo. Non è un caso se Confucio fosse profondamente convinto del valore del nome. Non è un caso se i concetti di magia e parola siano così intimamente connessi.
Sia chiaro: il tutto con i piedi ben poggiati in terra: non si vive di sola poesia e Astolfo non andrà sulla Luna a recuperare il vostro senno.
Prima di andare oltre, sento il dovere di dare un avvertimento: le parole sono armi, uccidono.
Si può guarire dal fendente di una spada, ma le parole lasciano ferite che difficilmente si rimarginano. Le parole possono essere usate per indurre in errore, assoggettare, raggirare e di parole sono fatte le gabbie mentali entro cui siamo costretti. Queste sono le parole del ladro, del mercante, del monarca. Parole che ci portiamo dietro dall'infanzia, ereditate da altri che le portano dietro come macigni, che poggiano sulle spalle altrui. Cercate di riconoscere quei costrutti e distruggeteli o, almeno, fuggite da loro.
Non c'è peccato nell'usare parole altrui, a patto che le si sia comprese e fatte proprie, in maniera libera e si comprenda dove nascano e dove portino.
Che le nostre siano le parole del poeta, parole che creano un mondo nuovo, fatto di tutta quella inutilità che il mercato e la tecnica disprezzano. Parole nostre che possiamo donare sotto mille e mille forme, ma che non possono portarci via, ognuna con la sua sfumatura e il suo suono, non necessariamente dolce, ma preciso. Un tarassaco è tale anche se lo si chiama dente di leone, soffione, piscialletto, insalata pazza, ma ognuna di quelle parole, sebbene sinonimi, ha una valenza precisa, legata all'uso e al momento. Piccole sfumature, che danno senso alla poesia.
Si prenda ad esempio i saluti. Ciao, dal veneto slavo, letteralmente significa "servo tuo": dichiari alla persona che offri il tuo aiuto, fosse solo per superare la solitudine. Arrivederci: regali la speranza che ci si possa ritrovare. Addio: non ci si rivedrà, ma ti pongo nelle mani di una autorità superiore, perché ti protegga.
Orsù! Ti sprono a voltare le spalle al mondo dell'efficienza e riscoprire l'inutile mondo della carne e del tempo perso. Un mondo che da poeta puoi plasmare secondo il tuo piacere, condividere e ampliare con le parole poesie altrui. Mondi di poeti mortali che rifuggono l'idea di illimitatezza e scoprono il piacere dell'attimo, dell'immenso. Scopri l'inutile e l'assurdo e, sempre coi piedi in terra, affronta il transito terreno con piena consapevolezza e che le tue parole siano libere e liberatorie. Sii il poeta creatore, non la macchina esecutrice.

Marco Drvso

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