sabato 19 settembre 2020

Dal treno al cuore

Yes I’m the great pretender! 
Così inizia il magnifico pezzo cantato da Bobby Vinton che accompagna la stesura di questo pezzo. 
Ho scoperto questo versione ieri sera, mentre rientravo dal parco dove mi alleno e scopro il piacere di avere un corpo e già non posso quantificare le volte in cui è stato riprodotto. Ascoltare vecchie canzoni è uno dei piaceri più grandi. Sembra che siano state scritte col preciso scopo di essere ascoltate in questo momento, qualunque sia questo momento. 
I vecchi autori erano capaci di miscelare gli ingredienti con arte e sapienza, rendendo allegra una canzone triste, inserire speranza in una malinconica e dare il tocco agro a quelle spensierate.  
Si prenda ad esempio Mr. Lonely, che è in riproduzione adesso. Il testo è da tagliarsi le vene (in sintesi è uno che descrive la propria assoluta solitudine. Finito al fronte passa dall’essere il signor solitario a soldato solitario e il mondo non lo caga di striscio, nessuno gli scrive; tristezza a palate), ciononostante si fa ascoltare con piacere, indipendentemente dall’umore del momento. Qualora si sia allegri, è un piacevole sottofondo e se si è tristi non aggiunge tristezza, anzi culla come una balia amorevole. Cotanto sottofondo musicale, che accompagna il passo ritmico del treno, con me impossibilitato a far due parole, a causa di mascherina e distanza, chiede di essere condiviso.  
Sembra di trovarsi in una scacchiera umana, in cui al massimo si riesce a scambiare una occhiata e un mezzo sorriso, sotto questo panno ingombrante. In questo momento è il re a cantare il sottofondo e questo asettico frecciarossa sembra più bello. Li osservo e mi domando cosa faccia questo umanità che condivide il viaggio con me.  
Il vecchietto dietro di me non si fa sentire da un po'. Dal suono del suo telefono, che leggeva la schermata, direi che possa avere problemi di vista. Il telefono parlava in inglese. La signora nell’altra fila non stacca gli occhi dalla rivista. La gran bella ragazza, che guarda il trono di spade sul telefono, con cui scambio occhiate. I due davanti a me che a Milano impazzivano per capire quale fosse il loro posto e via discorrendo. Cosa facciamo tutti su un treno diretto a Napoli? 
Il mio viaggio finirà a breve, Bologna centrale. Chissà dove andranno i miei sconosciuti compagni di viaggio e perché. 
Tornando alle vecchie canzoni, attraversare la stazione di Bologna ascoltando My Way è emozionante. 
Per chi non lo sapesse, il testo narra le ultime parole di un moribondo, che saluta gli amici, felice di aver vissuto a modo suo, accompagnato dal magnifico arrangiamento di Sonny Bono, che insieme a David Bowie ha preso una tristissima canzone francese, trasformandola in una ode alla vita (la storia della genesi di My way è affascinante. Ne consiglio la lettura in rete). 
Il viaggio da Bologna a Ravenna è stato veramente un dito in culo, infilato di traverso (perdona il francesismo). Il panorama era piatto, anche rispetto alla Lomellina, il tablet non accettava la carica (ergo non potevo scrivere) ed è durato una eternità. Per fortuna, avevo la musica! Ho fatto in tempo ad ascoltare la versione integrale di Shine on your crazy diamond, al cui confronto la quinta di Beethoven e Echoes (per restare in tema Pink Floyd) sono canzonette brevi. Seguita dai maggiori successi di Nina Simone…. 
Ovviamente, il viaggio è finito con la classica esclamazione da imbruttito, che scende dal mezzo di trasporto -Figa che sbatti!-. Adoro viaggiare in treno, soprattutto quando ho pensieri per la testa (e in questi giorni sono tanti e molti, ahimè, sono legati a questioni al di sopra della mia volontà). È una esperienza che potei definire zen (con una espressione errata, ma diffusa). Mi lascio cullare dal mosto d’acciaio, lungo la ferrata, ascoltando il flusso dei miei pensieri, come sul lettino di un analista.  
Focalizzare lentamente le dinamiche del mondo che mi circonda e con me interagisce (siamo animali sociali), trovando soluzioni. Oggi ne ho trovate due.  
Una è un interessante tampone per la situazione lavorativa post covid: reinventarmi. 
Una è per una situazione complessa: accettare la botta e allontanarmi, assecondando i problemi altrui, senza più cercare di risolverli. Sono stanco di lottare contro mulini a vento e inseguire chimere, ricevendo in cambio briciole e sofferenza. Cerco sempre di salvare qualche pezzetto di mondo da una vita e ogni volta ne esco con cicatrici, talvolta da esibire con fierezza, talvolta solo dolorose. Per una volta, scelgo di accettare il dolore della confitta, per dedicarmi a me. Mi spiace per chi si beccherà la mazzata al mio posto, ma tutto sommato: si fotta. Ha voluto la bici… Non so essere cattivo, non è la mia natura, ma talvolta provo ad essere egoista e mettere me davanti a tutto. 
Eccomi qui, a fine serata, in albergo a rileggere e sistemare questo pezzo.  
Non c’è musica, solo un ritornello in testa e quei due treni carichi di storie, che mi hanno aiutato a chiarire i pensieri, saranno già andati e tornati più volte da Napoli e Rimini e mi chiedo che fine avranno fatto i miei compagni di viaggio, di cui conosco solo i volti. Voglio sperare che siano in un luogo felice e abbiano passato una bella serata e, magari, una bella notte. 
Finché esisteranno i treni, noi sognatori avremo un posto per pensare, sognare e capire, lontani dal caos del mondo, in una bolla di sapone che saltella sulle giunture dei binari, accompagnando musica e pensieri. Finché esisterà il treno, avrò il mio piccolo angolo mobile, su cui ho preso le decisioni più importanti e giuste, guardando un panorama che si muove a velocità differenti, su cui appendere i pensieri: quelli inutili sulle fronde che scappano velocemente e a seguire, in ordine di importanza, si allontanano verso gli orti lenti, le case in lontananza che seguono placide, fino ai campanili che sembrano immobili e seguono a lungo il viaggio, nella loro distante austerità.  

Marco Drvso

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