Visualizzazione post con etichetta volare. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta volare. Mostra tutti i post

sabato 1 aprile 2023

Manifesto luciferino della necessità

 In questi giorni ho riflettuto sulla mia condizione e su quella umana in generale ed ho iniziato a stendere queste righe, camminando nel buio.
Una oscurità nata dentro, alimentata dalle tenebre che mi circondano, in un mondo che non è mio, in cui la bellezza e la necessità hanno perso nei confronti dell'oscena bruttura del superfluo.
Non sapevo se avrei finito di scrivere questo pezzo, invece eccomi qui, giorni dopo, a finirlo, ascoltando i Carmina burana di Orff.

Se dovessi dare una colpa al cristianesimo, al di là delle tante cazzate che leggo e sento, è quella di aver confuso il Satana biblico con il Lucifero pagano, incasinando la storia occidentale.
Il primo è un pirletta che si atteggia a signore del male, ma è solo un bambino viziato che sclera col padre, facendo il suo gioco. Non è creatore: solo un mezzo demiurgo che funge da parafulmine per il fratellino e le mosse, discutibili del suo creatore (il solo nel racconto ad essere luce e tenebra). Di fatto, un coglioncello che si crede Re, ma è solo un vassallo da 2 soldi, con buona pace di Milton, che pur attingendo dalla mitologia biblica, usa la figura satanica per descrivere quella luciferina, almeno nella prima parte. Ho adorato quel suo ribelle sconfitto, che finalmente trova un posto tutto suo, peccato il seguito in cui distrugge un personaggio magnifico (nello sviluppo del poema è necessario e nulla toglie alla grandezza dell'opera, anzi).
Il pianeta Venere ha altri 2 nomi, in base alla posizione relativa nel cielo: Lucifero, la stella del mattino, quando compare al sorgere del Sole e Vespero, la stella della sera, al tramonto. Una volta porta luce, una volta porta tenebra, come ogni Dea dell'amore, dai tempi di Inanna.
Nelle mitologie troviamo varie figure luciferine e sataniche, ma al contrario del moderno occidente queste sono ben differenziate.
L'avestico Angria Mainyu o Arimane ben somiglia alla versione dualistica del cristianesimo moderno (dualismo che a chi ha letto e capito la bibbia fa orrore), decisamente uno stronzo, votato alla distruzione; si sta parlando di un rospo autogenerato che sodomizza se stesso per generare demoni e distruggere la creazione (se dovessi spiegare il narcisismo patologico, userei questa figura). Un patetico frustrato, al pari dell'arcangelo caduto.
Una via di mezzo sono il Susanoo shintoista e il Seth egiziano, entrambi frustrati, ma entrambi consci del proprio ruolo nel mondo e artefici del fato, agenti della necessità, oltre che figure realtivamente positive.
Le vere figure luciferine sono complesse. I miei preferiti sono Prometeo e Loki, probabilmente volti dello stesso personaggio.
Al contrario dei personaggi citati in precedenza, non ho inserito il link di wikipedia, perché sono figure di cui ho già scritto e sono così affascinanti che invito a fare ricerche in merito, affrontandoli da più punti di vista. Entrambi si muovono in modo ambiguo nel mito ed entrambi sono puniti dalla figura dominante, che li incatena ad una pietra, a subire il supplizio di una fiera. Entrambi nelle vicende umane e nella nostra creazione (su Loki gli esperti si dividono) e forieri di doni meravigliosi, ma sovente avvelenati, a causa dell'imbecillità umana e divina. Soprattutto:entrambi padroni della propria vita, che portano la propria autoderterminazione alle estreme conseguenze. Entrambi vedono lontano, conoscono le necessità del fato, sanno cosa vogliono, e sanno come ottenerlo, consci dei rischi e delle conseguenze. Loro accendono la miccia e vedono bruciare il mondo, perché così deve essere, senza trarne vantaggio personale.
Loki provoca la morte di Baldr e Hodr, pagandone duramente le conseguenze, al fine di salvarli dal Ragnarok, in cui lui stesso trova la fine, permettendo loro di tornare e dare inizio al nuovo mondo.
Prometeo sa che il fuoco libera le genti umane dalla condizione ferina, ma sa altrettanto bene che il fuoco è l'inizio della civiltà e della guerra, non a caso è lui che sfonda il cranio di Zeus, permettendo la nascita di Pallade in armatura. Insegna a noi mortali a truffare gli Dei, gettandoci nell'agone. Prometeo è quella tecnologia che cura le malattie, ci manda nello spazio e pone in mano a perfetti imbecilli un arsenale atomico.
Loro sono ladri, assassini, traditori, creatori, difensori, gentili, violenti, altruisti... La sola certezza è che hanno trasceso l'illusione del bene e del male e abbracciato l'ananke.
Entrambi sono portatori di luce e ombra, perché il mondo è la magnifica danza degli opposti che compongono il tutto, un enorme Polemòs in cui regnano il caso, Fato, la scelta, Ecate, la necessità, Ananke e le forze di attrazione, Eros, repulsione, Eris e lo scontro/incontro (ho dubbi su questa definizione, ma non trovo una parola migliore) Ares.
L'essere luciferino è questo: colui che punta alla luce, perché è quello il fine dell'esistenza, senza rinnegare la tenebra, il cui abbracciare la consapevolezza della condizione è figlio dell'aver colto il segnale del fato, scelto di volerlo compredere e abbracciato la necessità che governa il mondo, allontanandosi dal superfluo.
Vibriamo a frequenze ridicole, perché così ci hanno insegnato, ingozzandoci del superfluo, perdendo il necessario, senza il coraggio di rompere gli schemi. Abbiamo paura di incendiare il mondo, per salvare quel granello di sabbia che abbiamo comprato sacrificando la vita. Abbiamo paura della nostra volontà e di quel che ci grida il cuore, perché le catene potenziali ci fanno più paura di quelle reali cui siamo costretti. Soprattutto: ci hanno insegnato un falso dualismo, in cui gli opposti si combattono e la scelta di campo è obbligatoria: una follia. Cervelli di Boltzmann anestetizzati, che non creano la realtà, ma subiscono la narrazione altrui, alimentando un mondo folle.
In questo differiscono i luciferini dagli altri. Non vivono nella perenne speranza della salvezza, nel timore della dannazione o seguendo le vacue promesse di una o l'altra parte. Non riescono ad essere soldatini obbedienti di autorità che non riconoscono. Conoscono le regole universali, sanno come muoversi nel loro meandri e sebbene la gravità agisca secondo leggi inalterabili e inviolabili, sanno volare, perché conoscono anche altre leggi che dominano energia e materia. Fanno del problema la risposta.
Io amo i folli, gli zagrei che danzano sconvolgendo Tebe. La gente che una volta sentito fischiare il treno si rendono conto che il mondo è altro. Amo chi comprende che la stella più grande, calda e luminosa non può esistere, senza il freddo e buio, vuoto cosmico ed entrambi sono parte di un unico,
Io amo chi sa brillare dentro, conscio di proiettare anche ombra e come la sopracitata stella sa vestirsi di quella tenebra.
Oggi ananke è uscire dalle gabbie che il mondo occidentale ha creato. Ananke è riappropriarsi della qualità umana che ci rende creature stupende e terribili. Ananke è liberare quella stella ambivalente, portatrice di luce e tenebra che è dentro di noi e farla crescere.
Ogni giorno il fato ci pone davanti a delle biforcazioni del cammino, spesso multiple, in cui scegliere tra più strade. L'essere del superfluo segue il percorso indicato, quello apparenemente semplice che porta a sprecare il transito terreno. Pochi, i consci delle proprie luci e tenebre, che hanno aperto gli occhi (o sono totalmente pazzi, nessuno lo può escludere) decidono di scegliere la propria strada, consci dei rischi e per molti di questi scegliere è una necessità fisiologica. Rompere gli schemi, infrangere leggi fasulle, pagarne le conseguenze, ma farlo a testa alta, alla ricerca dell'essenziale.
Luciferini vi sto cercando, perché da solo non sono in grado di incendiare il mondo, ho bisogno della vostra luce e della vostra tenebra per volare, come voi ne avete bisogno di quelle dei vostri simili.

Marco Drvso

lunedì 22 agosto 2022

Il vento dell'autunno

Da un paio di giorni soffia una magnifica brezza gelida, che preannuncia l'arrivo dell'autunno, la mia stagione preferita.
È un turbinio di colori, in un divenire perpetuo, che preannuncia la morte del Sole, col suo carico di promesse di rinnovamento, di cui sto gustando l'antipasto. Dalla finestra entra questo piacevolissimo vento, che mi obbliga a tener coperto il collo (unica seccatura) e muovendosi nella vallata, tra montagne e case, sembra cantare una melodia romantica, carica di una dolce nostalgia. Dal lucernario vedo le nuvole, che cullate dal vento attraversano il cielo, prendendo forme sempre nuove, che si arricchiscono con i giochi di luce di questo Sole caldo, che avvolge come un abbraccio gentile. Ho sempre voluto essere una nuvola.
Le nuvole non si vergognano di danzare nel vento, vagando placide e leggere. Sperimentano le altezze, eccitate dalla vertigine, ben lontane dalla miseria umana. Tutti noi siamo uno spreco: potremmo prendere il cielo, invece sguazziamo felici nel fango.
Adoro le giornate d'inverno, ogni giorno più lunghe e sempre più luminose. Mi commuovo per la danza della vita in primavera, ma entrambe le stagioni impallidiscono davanti al grande tramonto autunnale. Con l'estate non ho un buon rapporto, perché è bugiarda.
Ho voglia di lunghe camminate sotto l'ultimo Sole, tra le vie della mia città. Non pensavo che Milano potesse mancarmi tanto. Voglio vedere i colori del tramonto lungo il naviglio, il duomo che arrossisce al Sole. Voglio passeggiare tenendo in mano una cioccolata bollente, che scalda i palmi, mentre il dorso della mano si ghiaccia.
Lo scorso autunno è stato magnifico, ma ho perso l'inverno, col suo carico di freddo, di cui ammetto di aver bisogno ,talvolta, e la primavera è durata poco. Confido nella prossima orbita.
Si avvicina la stagione rossa e, se sono fortunato, potrò scorgerne i primi colori qui sulle dolomiti, sperando di non divermi far spedire una giacca pesante da casa. Sono curioso di sapere come sia l'autunno in Canaria e magari decido di tornare e mettere radici, chissà.
Sono una nuvola e questo vento mi ricorda che è tempo di sonnecchiare e farmi portare alla prossima tappa. La prima sarà godermi il tramonto, in questa giornata di riposo: ne ho bisogno. Adoro questo lavoro che mi sono scelto, ma un bar senza finestre è un bunker ed io devo vedere i colori del tramonto, vagando nel cielo come una nuvola.
La ritrovata leggerezza mi fa stare bene. Il momentaccio è passato e rileggendo il mio diario, scopro con piacere che è sempre più raro e sempre più breve. I colori sono di nuovo brillanti, i profumi frizzanti, i sapori pieni, i suoni forti ed io sono una nuvola, che si abbandona al vento e al Sole d'autunno.

Marco Drvso

sabato 20 agosto 2022

Tirando le somme di un anno strano, il 42

Sono gli ultimi giorni di questo anno pazzesco, foriero di grandi scoperte e rivoluzioni, di cui scrivo ascoltando una delle più belle canzoni di Daniele Silvestri: La bomba, dal mio album preferito, Il dado. Senza un briciolo di malinconia non so scrivere.
In questi giorni ho analizzato sul blog la mia fragilità, i miei difetti, le mie scelte, alla ricerca di un senso profondo che conosco già, ma solo questa notte ho trovato la forza di parlare allo specchio, nudo davanti a medaglie e cicatrici, ammettendo questo senso profondo e scoprendo che ancora esisteva una maschera: quella che usavo con me. Togliere questa ultima difesa è stato liberatorio, poi ho dormito come un pupo.
42 si dice essere la risposta e in questo anno mi sono sforzato di trovare la domanda sulla vita l'universo e tutto quanto. Ci sono voluti mesi, delusioni, avventure, cambi di cielo, stravolgimenti della vita, ma infine credo di esserci quasi arrivato (è come un limite di funzione, non lo si può raggiungere).
Devo ringraziare Milano, Las Palmas e Corvara, coi loro cieli e ciò che c'è sotto, persone comprese, per avermi messo davanti a me, in modi diversi e bizzarri, permettendomi di conoscermi, come mai prima. Avevo proprio bisogno di uscire dalla quotidianità e dare una scossa.
Ci sono stati momenti idilliaci e tremendi, fino alla crisi di un paio di settimane fa, quando la dama nera ha bussato con prepotenza, cercando di riprendersi ciò che pensava essere suo. La stavo sentendo arrivare da giugno e ne ero preoccupatissimo, ma per una volta, ho lasciato perdere lo scontro violento, ho lasciato che entrasse pacificamente e abbiamo parlato. 
Brutta bestia la depressione, un po' figlia del trascorso, un po' uno squilibrio biochimico del cervello che agiscono insieme, come serpenti che si mangiano la coda. Si dice: "depresso una volta, depresso per sempre", invece se ne può uscire. Con le ossa rotte, ma se ne esce e si impara a tenere botta, quando arriva. Questa volta abbiamo parlato.
Un malinconico viaggio dentro a paura, rabbia, sofferenza, disperazione, alla ricerca del senso di cui sopra. Ho accolto la dama, in un certo senso abbiamo fatto l'amore e ci siamo lasciati, sapendo di essere una cosa sola. Lei mi ha indicato lo specchio, mi ha levato la maschera e insieme abbiamo pianto.
È stato il compimento di un viaggio che è parso eterno e pieno di pericoli, ma guardando indietro vedo un sentiero fiorito, con qualche segno di caduta, pezzi persi, fiori innafiati di lacrime, sudore e sangue, ma anche opere, bellezza, felicità ed ora che questo sentiero è giunto a un bivio, inspiro e imbocco la nuova strada, che ancora non vedo. Vedo uno zaino pieno di cose prese lungo il sentiero, buone e cattive, che devo svuotare, scegliendo cosa verrà con me, cosa ha fatto il suo tempo e cosa scopro con rammarico che non c'è più; rammarico che fa parte delle cose da gettare.
Esattamente un anno fa ero in piena crisi, cercando di capire cosa fare della mia vita ed ho scelto di tirare una monetina: salvare e riparare o distruggere e ripartire. Prima ancora che il fato avesse dato il verdetto, avevo deciso e credo sia stata la miglior decisione della mia vita.
Ancora non sapevo quanto piombo avessi addosso e mi avrebbe seguito in questa prima fase, facendomi perdere persone e situazioni potenzialmente stupende, ma quasi ringrazio, perchè sono state anche le perdite a permettermi di amoreggiare con la mia paura più grande e scoprire che è una parte di me che devo capire, non combattere.
L'anno volge al termine e sotto un cielo plumbeo riscopro di volermi bene e di amare il mondo che mi circonda, chi mi ha fatto del bene e chi mi ha fatto del male, chi meriterebbe le mie scuse e chi dovrebbe porgermele, anche chi ormai è persa.
Che bello sbagliare! Che bello cadere! Che bello prendere la vetta! Che bello ridere! Che bello piangere!
Che bello vivere!
Accetto la mia diversità, la mia parte oscura che mi segue e perseguita, la mia luce e anche se mai sarò capace di essere pienamente capace di integrarmi in questa società psicotica, non sarà un problema. Questo è stato l'anno della nuova esplorazione e ora posso iniziare a costruire, perchè credo di aver deciso chi essere da grande: il bambino libero che non sono mai stato.
È stato un anno favoloso, anche grazie a tutti coloro che hanno attraversato, avversato e condiviso il cammino, perchè mi hanno ricordato quanto sia bello fluttuare in paradiso e quanto sia istruttivo camminare all'inferno.
Sono eccitato per la nuova orbita intorno al Sole e mi chiedo cosa porterà. Spero di non sprecare neanche un secondo e che questa volta il mio timore di fare male, dettato dalla depressione, che tante volte mi fa allontanare le persone sia stato superato. Sono strambo, diffidente e difficile da capire, ma sto scoprendo che gli umani mi piacciono e mi piace stare con loro.
Tra un mese sarò a Milano e conto i giorni come se fossi a naja non perché voglia andarmene, anzi, adoro il posto e le persone, ma voglio vedere la mia città con occhi nuovi. 
Sotto nuovi cieli ho trovato un nuovo me.
Grazie!

Marco Drvso

giovedì 18 agosto 2022

I fiori più delicati

Io amo le persone fragili,  non posso fare altrimenti.
Come noto, io sono parte di questa umanità fragile e per questo motivo riesco a percepire subito la fragilità negli altri e quando la scovo, mi è impossibile non volerla proteggere. 
La fragilità è un dono magnifico e orrendo, perché ti permette di sentire con una intensità difficile da descrivere, ma questa intensità può essere tremenda da gestire. I fragili gioiscono e soffrono più degli altri, perché il loro cuore è sempre pronto ad andare in frantumi o brillare come stelle. I fragili sono empatici, conoscono cosa sia soffrire ed hanno sempre paura di ferire un'altra persona, preferendo sfiorarla.
Alcuni si cingono di una armatura, per difendere il proprio cuore di cristallo che mostra tutte le crepe e le riparazioni, ma alla lunga la vita corazzata ha solo due possibili sbocchi: si diviene la corazza o la si toglie.
Piango per coloro che sono diventati la propria difesa, cinti in una eterna anestesia, con l'illusione di una potenza che è solo facciata, con la propria parte più vera che urla e piange, in un profondo che temono. Non è vivere, lo so bene: ero un corazzato, che stanco di raccogliere i propri cocci, stava morendo lentamente.
Solo accettando ciò che sono, sono riuscito a trovare la forza di non sbriciolarmi facilmente e nel contempo iniziare ad amare e voler proteggere i miei simili, soprattutto quelli che o non ne hanno coscienza, scambiandola per altro, o ne hanno paura, finendo impegolati in situazioni assurde. In questo, ammetto, di aver tenuto una parte del vecchio sistema, passando da inamovibile a vagamente sfuggente, schivatore di pallottole, finché non sono rinsavito ed ho accettato che alcuni colpi siano da schivare, ma altri vadano presi in pieno petto, costi quel che costi. Si chiama spendere bene il proprio tempo limitato.
I fragili sono molto più forti degli altri, perché cadere e rialzarsi, coi propri cocci in mano, richiede una forza mostruosa; è uno sforzo titanico. Non so da dove esca questa forza, che spinge a proseguire, rialzandosi come i soldati di Osowiec, che con le loro interiora in mano ricacciarono indietro le truppe di Hindenburg (ovviamente morirono poco dopo, a causa del gas Nerviano respirato, poveri cristi), mossi solo dalla loro tenace disperazione.
Sarebbe facilissimo restare a terra, abbandonandosi alla consapevolezza di quanto l'esistenza sia dura e priva di uno scopo e non nego di averlo fatto: un periodo buio, privo di emozioni, che non auguro. L'unico lato positivo, fu trovare una luce in quelle tenebre, che mi mostrò che la vita, per quanto dolorosa e insensata, valga la pena e che ad ogni distruzione segue un inizio.
Ho passeggiato spesso nel mio inferno, talvolta ne ho tratto oro, altre ho accumulato piombo, ma è sempre stata una cosa buona. 
Non è il postaccio che raccontano, se vi si entra consapevolmente. 
Per questo motivo, quando incontro gente come me, mi prodigo, senza un fine, solo per il piacere di un sorriso. Non serve che tutti si perdano in quella strada, quando hanno qualcuno che ha viaggiato anche per loro e può mostrare il proprio sentiero. Mi solleva immaginarmi come un viandante nelle tenebre, che porta una lanterna sulla schiena.
Per queste ragioni non potrei mai far male a queste persone. Diamanti grezzi che ignorano il proprio valore, pronti per essere tagliati e posti su una corona, a patto che non finiscano nelle mani sbagliate, come spesso accade. 
Amo il loro sorriso dopo un complimento sincero e come subito si ritirano, mostrando dolcemente la loro essenza. Mi piace la loro sincerità, che traspare anche quando cercano di mentire. Mi sciolgo, quando per un istante riescono a fidarsi e mi mostrano ciò che hanno dentro e ti guardano con timore, pregando che la loro fiducia non sia tradita, un'altra volta. Sono fiero, allo specchio con le mani vuote, perché pur avendo potuto prendere, ho dato; magari è una magra consolazione per i più, ma per me è tanto, perchè ho protetto uno tra i fiori più delicati.
Solo così posso specchiarmi nel cielo mutevole di oggi, che regala Sole, tempesta, colori, forme e profumi, in un caleidoscopio di istanti e apprezzarne ogni singolo momento, a testa alta. Forse dovrei essere meno il protagonista della canzone di Battiato (la cura) e più Gordon Gekko, ma non ne sono capace. 
Sono fatto male per questo mondo, ma mi piace.

Marco Drvso

martedì 16 agosto 2022

Danzando nella foresta degli specchi

Lo specchio rende sempre una visione falsata, perché mediata dai nostri occhi e letta dal cervello e perché offre una sola immagine. La natura umana è plurima.
Per ovviare a questo, uso uno specchio ben  più complicato di quello usato da Leonardo per il suo famoso autoritratto: la tastiera (penna sarebbe stato più evocativo, ma poco corretto).
Lasciar scorrere le parole è come addentrarsi in una foresta, in cui ogni albero è una parte di me, che chiede di parlare ed essere ascoltata ed io danzo al suo interno, come farebbero il vento e la nebbia, scrutando ogni anfratto, foglia, corteccia....
Talune volte, al risultato della esplorazione, si aggiunge un risultato estetico, di qualcosa di piacevole da leggere, in altri casi, come negli ultimi 2 post, qualcosa di vivo e vero, ma discutibile a livello stilistico. Devo smettere di scrivere di getto la notte, perché uccide la forma.
Questo è stato un anno difficile e presto o tardi sarei dovuto andare incontro ad un breve periodo di distruzione e chiusura, in cui tirare le somme e queste settimane sono state perfette allo scopo. Quando cervicale e mal di testa si presentano, senza colpi d'aria o troppa guida, significa che qualcosa al mio interno sta gridando.
Quale modo migliore, se non chiedere al mio io profondo di prendere il controllo e scrivere, affinché poi possa leggere attraverso gli occhi del conscio?
Sia chiaro: non è autoanalisi, in senso psicoanalitico, ma un dialogo tra parti di un monologo. Non cerco di capirmi, ma di lasciare uscire e afferrare cose che ho dentro.
Ieri scrivevo del mio angolo di tenebra, un luogo da cui pensavo di essermi affrancata e con meraviglia ho scoperto esistere ancora e fungere ancora da rifugio per la mia fragilità. C'è solo da capire se sia ancora lì o ancorato lì.
In quel momento è come se molteplici sfaccettature della mia persona coesistessero ed ognuna prendesse il controllo del testo, lasciando una parte di sè, affinché le altre parti la ascoltino e si uniscano, alla ricerca dell'unità dell'io e in quel momento comprendo tante cose di me e del mio agire, lasciando perplessi i miei 5 lettori.
Forse il mio è solo un goffo e solitario tentativo di rispondere all'antica domanda "chi sono?".

Marco Drvso

venerdì 12 agosto 2022

Pallottole e delusioni

Ringraziando gli dei, sono troppo vecchio per certe stronzate. 
 
Lo sono sempre stato, forse.
magari non lo sarò mai.
Questo brutto vizio, mio,
che mai m'abbandona,
di vedere negli altri,
che mi s'accostano,
la meraviglia in loro.
Di talune faccio tesoro,
come di gemme da difendere,
tesori da proteggere.
Non riesco a predare,
ciò che vedo di puro
e come uno scemo,
degli idioti il re,
le lascio sfuggire,
in mano a laidi tarli
che di quella scintilla,
così dolce e fragile,
che per rispetto o pudore
ho scelto di non macchiare,
si baloccano con amici.
Il mio inferno è il cuore,
il mio peccato, il vero,
quello che mi distrugge,
l'avervi sempre, sempre
messo avanti a me.
Una vita a raccattare
i cocci di vasi non miei,
per vederli in mano d'altri.
Chiedi cosa non va?
Guarda lo specchio. 
Maledetti gli dei, 
non cambio mai.

Tutto questo per dire: per fortuna, ho imparato a subodorare le fregature e schivare le pallottole, ma anche il colpo di striscio può bruciare. La sola, ma grande consolazione: quando sono davanti allo specchio e mi do del pirla, posso almeno vantarmi di non essere stato uno stronzo e non aver creato dolore. Forse una vittoria di Pirro, nel brucior di terga, ma un domani non mi si potrà dire che ho approfittato di una persona fragile, haimé totalmente scaduta ai miei occhi.
Questa la cosa che mi fa davvero male: perdere totalmente ciò che vedevo e ritrovarmi con un qualsiasi umano, verso cui provo quasi fastidio, al punto di starne alla larga e, come sempre, dover accettare che l'istinto aveva ragione, quando mi ha fatto tirare il freno a mano, ma io sono dovuto quasi andare a sbattere il muso. Se non altro, sono talmente disilluso da non aver fatto progetti e lo scazzo sta già volando via ed è stato utile per fare quel che già progettavo da tempo.
Forse mi piace ficcarmi in certe situazioni, perché mi aiutano nelle decisioni. Temo che il mio subconscio sia la parte più furbo di me.
Per fortuna, ho buoni amici con cui sfogarmi e queste pagine digitali dove abbandonare la questione, che una volta scritta e gettata nel mare della rete, evapora come una pozzanghera nel caldo agostano.
Mi spiace, ma è andata così. Volo da solo, ormai è il solo volo che conosco, difficilmente mi lascio avvicinare e recido gemme che dubito diano frutti, per le più svariate ragioni, nonostante mi faccia ancora girare le balle.

Marco Drvso

mercoledì 10 agosto 2022

Colloquiando con Ecate

   L'astro cinereo è sempre stata la prima confidente di poeti e sognatori, su cui riversare dubbi e idee, seppellire segreti e specchiarsi. Sono un sognatore e mi piace ritenermi, magari a torto, un poeta in prosa. Poeta nel senso greco.
   Questa sera, per un curioso gioco del fato, ho rivissuto specularmente una scena accaduta una ventina di anni fa. All'epoca ero alle prime esperienze al bancone e guardavo la Luna con gli occhi di un giovane che sognava di cambiare e diventare altro da sé. Oggi mi sono trovato, in una situazione lavorativa simile, come se 20 anni spesi in tutt'altro fossero svaniti, a contemplare la Diva, ripensando a quella sera d'estate e rallegrarmi che sebbene quel ragazzo non esista più, la parte che più amavo sia ancora in me. Ho buttato zavorra, ma sono sempre io ed è stupendo.
   Questo soggiorno lavorativo tra le Dolomiti mi sta giovando, nonostante qualche fastidiosa quisquillia che mi turba vagamente il sonno e un certo dilemma etico che mi insegue da un po' e tra ieri e oggi ha deciso di presentare il conto, sottoforma di fastidioso disturbo alla cervicale.
   Che seccatura, talvolta, avere una così forte autocoscienza: toglie il gusto dell'imprevisto.
   Vi è una sola cosa da fare in simili frangenti: trovare un luogo silenzioso e rivolgersi alla Luna, come quel lupo malfatto, che rifiuta il branco, quale io sono. Con buona pace di Platone, non riesco ad essere un animale sociale: scorgo con troppa facilità quel che non mi piace delle persone e ciò offusca ai miei occhi ciò che hanno di meraviglioso. Usando un detto fin troppo abusato, ma calzante: amo l'umanità; il problema sono le persone.
   Solo quello sferoide di basalto e polvere, quasi certamente espulso da Gaia, riesce a donarmi quiete. La vedo danzare in cielo, sfiorando le vette di strati dolomitici, un tempo fondali marini, che lei ha visto formarsi, brulicanti della vita delle acque salate da cui anche loro si sono originati, emergere, coprirsi di vita che respira aria e vedrà disgregarsi, sotto l'azione delle acque dolci. Da qui, si cinge e sveste di manti di nuvole, creando giochi di luci che donano forme nuove alle nuvole e al paesaggio, in un florilegio di sfumature di colore che vanno dall'oro, all'argento. 
   Tutto intorno è un brulicare rumoroso di esseri diurni, sovente incapaci persino di cogliere la gloria di Apollo, a causa del loro essere troppo assorti in quel fango fetido delle loro vite, che scambiano per oro alchemico, incapaci di sentire la bellezza dello spettacolo di Selene; uno dei tanti amori impossibili del signore della poesia, così brillante da aver spodestato Heliòs, il Sole propriamente detto ed averne preso il controllo, come sua sorella Artemide ha fatto con Selene, a sua volta sorella di Heliòs ed Eos. Povero Apollo: tanto magnifico, quanto sfortunato. Tutto il contrario di quel cialtrone di Zeus (fatto salvo per la cialtronaggine, tratto comune di olimpici e titani).
   La Luna identifica ben 3 dee, nel pantheon ellenico:
  • Selene: titanide, figlia di Iperione e Teia è la Luna propriamente detta.
  • Artemide: gemella di Apollo, figlia di Latona e Zeus.
  • Ecate: anche lei una titanide, la mia dività greca preferita, legata a culti misterici, dalla tripla natura, la Luna con cui spendo le mie notti e amo raccontare.
   Ecate, signora della scelta, che veglia sui bivi, i cambiamenti, l'evoluzione della vita e della magia. Colei che ha mostrato ad Ade il regno ktonio, lo ha reso re e gli ha donato Cerbero, che accompagna Persefone nel suo viaggio e sola ad aver aiutato Demetra. Mentre Hera sovraintende al parto, le levatrici rivolgono canti ad Ecate. I viandanti sono protetti da Hermes, ma è Ecate che guida la scelta della via. Ecate, divinità minore, poco conosciuta, sfuggevole e sempre presente, proprio come la Luna, tra le pochissime divinità adorate con la stessa reverenza dovuta ad Hestia, Vesta per i romani.
   Ecate è giovane e vecchia, uomo, donna e cane, proprio come la sempre mutevole Luna e come lei sfuggevole e presente, nascosta in bella vista, dove i più non possono vederla e sempre a disposizione di noi strambi, tranne quando decide di nascondersi anche a noi. La magia alchemica altro non è che trarre fuori il meglio dalle cose e situazioni, cambiando il piombo in oro. Proprio la Luna sovrintende ad una delle fasi più delicate, in cui si ha la trasformazione e la distillazione di quello che dovrà brillare come oro.
   La Luna, Ecate, si lascia contemplare, al contrario del Sole e sa essere specchio e faro, ma solo per coloro che scelgono un certo cammino e senza imporsi sprona il cercatore a proseguire quel cammino che va in due direzioni simultaneamente: verso gli umani e verso il proprio io più profondo. Come lei ha bisogno di Sole e Terra per esistere e compiere il suo fato di regina della notte, anche noi siamo costretti a danzare tra e con i nostri simili e ce lo ricorda sparendo, obbligandoci a distogliere gli occhi dal cielo e guardarci riflessi negli altri.
   Come fanno a non amarla?

Marco Drvso

lunedì 1 febbraio 2021

Eudaimonia o della felicità

I grandi maestri del pensiero greco concordavano su una cosa: la felicità vera, la pienezza della vita si ottiene solo nel momento in cui si realizza il proprio daimon, quel demone interiore che rappresenta la propria vocazione o virtù. Questa è l'eudaimonia.
Demone, vocazione e virtù sono da intendersi nel senso classico, precristiano.
Prima di addentrarsi nel discorso, è bene ricordare le parole incise sul tempio di Apollo a Delfi, dove la Pizia elargiva le proprie visioni: γνῶθι σεαυτόν (gnothi seauton - conosci te stesso), seguito dal corollario μηδὲν ἄγαν (meden agan - nulla di troppo, non esagerare). Sono parole potenti, forse contraddittorie, con cui l'oracolo ci sprona a seguire la sana follia che rende la vita meravigliosa, impersonata dal nostro demone, che abbiamo scoperto conoscendo noi stessi, il dono degli Dei o della natura, come perfettamente dimostrato negli scritti, ad esempio, di Bukowski, Nietzsche, Erasmo da Rotterdam e Platone. Se per i primi 3 dell'elenco dei miei saggi può non stupire che abbiano elogiato la follia, leggerlo tra le parole del padre della ragione è la prova di quanto sia grandioso questo dono. 
La seconda frase della Pizia è un avvertimento: non esagerare. Lasciare libera la propria follia o seguire la propria virtù, senza la giusta moderazione e comprensione delle proprie capacità (altra faccia del conosci te stesso), apre la via alla distruzione.
C'è della sana follia nell'artista, in chi inventa, in chi innova, in chi ama, in tutte quelle persone che hanno saputo liberarsi della ragione, per inseguire il proprio demone (caso emblematico è Socrate). Alcuni trovano la vera felicità, l'eudaimonia descritta da Aristotele, altri la dannazione, perché non hanno saputo o potuto fermarsi in tempo, prima di esserne divorati e dalla felicità sono stati piombati direttamente nel proprio inferno.
Capire in cosa si è bravi, cosa dia piacere, è la parte fondamentale del conoscersi e seguire quella via è la strada che porta alla felicità, un autentico 道 (dō - via, cammino; è l'ideogramma che in giapponese si usa come suffisso per indicare le discipline e le scuole di vita, ad esempio butsudō, buddismo-via del Buddha, bushidō, via del guerriero, etc).
Il folle riesce a realizzare il proprio daimon, ma non è così pazzo da farsi sopraffare e conserva la felicità, anche se le cose andranno male. L'importante è sapere che noi mortali siamo privi di istinti, ma dominati da pulsioni (che possono essere indirizzate) e costretti alla ragione, per questioni prettamente sociali e per il bene della specie. La piena follia, vivere al di fuori della ragione e delle leggi di natura è dominio degli Dei e sfido chiunque ad approcciarsi a qualsiasi divinità di qualsiasi culto e portarmi la prova che non sia totalmente folle (per evitare di ammetterlo, alcuni vaneggiano di vie insondabili...).
Questa è la sofferenza di questo moderno mondo della tecnica. L'individuo è spinto a ragionare come se fosse una monade e cercare il massimo per sé, inseguendo una insana follia dettata da una società malata, in mano a gente con evidentissimi problemi, che lo schiaccia e lo trasforma in una risorsa del sistema, l'ingranaggio di una macchina senza pilota, che vive da alienato, salvo gettarsi nella distrazione nei momenti di libertà. Non siamo più parte viva della polis, alla ricerca della propria felicità che cammina col benessere dei nostri simili, ma cannibali in perenne lotta, che si anestetizzano con surrogati precotti e imposti dalla pubblicità, convinti che questo sia il solo mondo possibile. Che fine hanno fatto le domande, il dubbio, la ricerca, la voglia di esprimere in modo pieno e soddisfacente il proprio Io, per la propria e altrui felicità?
Vedo persone che cercano il proprio Io dentro prodotti di massa, alimentando la propria e altrui alienazione, sfuggendo dalla felicità, quella vera e folle. Persino amare si è ridotto a patetica ginnastica e interesse transitorio, mediato dalla necessità di controllarsi, perché la follia e la felicità fanno paura.
Tempo fa mi è capitato di rimare fisso ad osservare un tramonto meraviglioso, a bocca aperta. Ero assolutamente stupido, nel senso più intenso e potente del termine: stupito oltre ogni limite, tanto da restare inerme. Una esperienza rarissima quanto stupenda, come trovarsi davanti alla persona amata e non riuscire a fare nulla, perché si vuole restare in silenzio, come uno stupido, in contemplazione di chi si è scelto per condividere la follia (ovviamente poi si passa alla fase successiva, ma senza quel momento si perde tanto e si rischia la cilecca per troppa emozione; ne scrivo con cognizione). Se si è fortunati, si trova qualcuno che condivida la follia, altrimenti è meglio riprendersela, lasciare giù un feticcio, una falsa follia utile solo a sviare e andare avanti. Mai lasciare la propria follia in mano a chi non sa che farsene.
Ero perso davanti a quel tramonto e la gente che passava mormorava. Ho impiegato un po' a rendermene conto, tanto ero perso nei colori del Sole morente, finché ho sentito un bambino che chiedeva alla madre cosa stessi facendo e lei ha borbottato qualcosa di fastidiosamente idiota. Preso dalla stizza verso di lei, ho domandato, educatamente e con falsa noncuranza, se avesse mai visto un tramonto più bello. Morale: il bambino, che per sua natura è folle, ha sgranato gli occhi verso quello spettacolo, mentre lei e le altre persone intorno hanno gettato una occhiata distratta, alzato le spalle e proseguito, convinti che il pazzo fossi io.
Sciocchezze che ci hanno inculcato per secoli ci hanno eradicato dalla realtà della nostra natura mortale, privandoci della giusta dimensione della nostra esistenza limitata, alla ricerca di una felicità posticcia. Dobbiamo tornare mortali, riprenderci il nostro demone e cercare la vera felicità fatta di follia e moderazione, per la gioia nostra e di quella che oggi è la polis globale, la specie umana che abita la Terra e vive nella natura, perché ne è parte e non proprietaria. Si torni ad osservare un albero senza vedere del legname o della carta. Si torni a sentire il soffio del vento e il calore del Sole senza pensare all'energia per alimentare i baracconi dell'inutile. Si torni a fare arte, di qualunque tipo, cercando lo stupore e la bellezza e non il ritorno economico. Torniamo a gustare gli attimi e abbandoniamo l'orrido precotto e predigerito che ci spacciano per felicità, a cui è preferibile la cicuta.
Conosci te stesso, realizza il tuo demone, danza felice nella tua follia, fino a sfiorare quel limite concesso solo agli Dei e dai un senso al transito in questo mondo, perché dopo non c'è nulla. Vola ora, finché puoi, con le tue ali che il mercato non può venderti, ma può solo illuderti di poterti donare, in cambio del tuo tempo, la tua vita.

Marco Drvso

lunedì 18 gennaio 2021

Il nemico allo specchio

Guardare il Sole attraverso la nebbia, lo fa sembrare una palla smorta, lontanissimo dalla stella vicina che dona vita e talmente brillante da non poter essere osservata.

Questa enorme fase di transizione che vivo da mesi è foriera di intuizioni sempre più profonde e raffinate, che mi stanno aiutando a comprendere me, le mie scelte, le vittorie e i fallimenti. 
Su questi ultimi, mi piace citare 2 frasi geniali. La prima mi è capitato di sentirla qualche settimana fa, ma non ricordo di chi sia "Le vittorie sono transitorie, la sconfitta è per sempre" e il detto "L'importante è crederci". Le classiche verità lapalissiane, talmente ovvie da dover essere comprese: le vittorie danno piacere per qualche tempo, poi si perdono, mentre le sconfitte bruciano a lungo e talvolta si ripresentano dopo anni. Soprattutto: se non si è convinti, non si crede seriamente in qualcosa, non si raggiunge il risultato. Da qui il titolo di questo pezzo.
Spesso ci si domanda perché le cose non vadano come previsto, perché persone con numeri minori ottengano risultati più grandi, etc. Ci si rifila risposte delle più disparate, ma la triste realtà è che la causa sia sovente da ricercarsi nel pirla che vedete allo specchio (e, psicanaliticamente parlando, nei danni di chi li ha tirati su; ma non vuol essere una scusa per scaricare colpe su altri). Spesso siamo noi stessi a sabotarci, rendendo impossibile scalare la montagna, togliendoci convinzione o, peggio, convincendoci di non poterlo fare, a causa di una immagine distorta che ci si porta dietro dall'infanzia. Tante volte siamo noi il nostro primo nemico, ma senza una sana analisi interiore raramente lo si capisce; poi una volta compreso, c'è l'altro grosso scoglio da superare: affrontare il nemico. Bisogna capire i fallimenti e lasciarli andare. Bisogna capire le ragioni della propria autodistruzione. Bisogna interrompere questo circolo vizioso.
Una immagine che amo utilizzare è quella del viaggio all'inferno. Inferi nel senso etimologico del termine: ciò che sta sotto. Bisogna scavare dentro di sé, intraprendere il viaggio dantesco attraverso gli strati del proprio io, con la forza e il coraggio di vedere e affrontare quei mostri, fino a giungere al nocciolo, all'io più vero, capire e agire. Una volta esplorato l'inferno, è necessario risalire quel purgatorio fatto di trasformazioni e lavoro, per arrivare finalmente alle stelle.
Sia chiaro: spesso siamo i nostri primi nemici, ma in quanto animali sociali siamo comunque soggetti ai nostri simili e al nostro ambiente: non tutto è in nostro potere. L'automiglioramento non deve essere flagellazione o autodistruzione: bisogna avere la giusta dose di chiarezza e comprensione per distinguere le cause endogene da quelle esogene.
Giorni fa, una persona cara mi ha posto la classica domanda da 1 milione: "cosa vuoi?"
Un tempo non sarei stato in grado di rispondere con chiarezza. Un tempo sapevo cosa non volessi, ma non possiamo affidarci al polemos greco, non sappiamo che sia giorno perché conosciamo la notte. Quella domanda mi ha fatto riflettere e per la prima volta ho risposto con cognizione.
Ho risposto perché ho sconfitto molti dei miei demoni e sono andato avanti e in questo cammino ho compreso i tanti fallimenti autoindotti.
Ora che ho identificato il nemico, devo trasformarlo nell'alleato. Scrollarsi di dosso tante cose che nel tempo hanno stratificato la coscienza e ripartire, diventare amici di se stessi: un processo lungo, difficile, ma che regala soddisfazioni e, purtroppo, impone di abbandonare i famosi piombi di cui ho scritto nei mesi passati, in alcuni casi utilizzando anche le stesse tecniche con cui ci si è autosabotati a lungo ("impara l'arte..." diceva qualcuno).
Sapere cosa si voglia, esserne convinti e credere in se stessi: l'inizio del cammino.

Marco Drvso

domenica 13 dicembre 2020

Lettera aperta al 2020 e al 2021

Sul finire di questo anno delirante, che molti hanno definito come la più assurda partita a Jumanji della storia, tiro le somme.
Il mio mondo è totalmente crollato e non ho neanche avuto la soddisfazione di farlo crollare con le mie mani. A livello globale e lavorativo, è inutile ricordare cosa sia successo: lo sappiamo bene tutti, come sappiamo che la fine di tutto sia ancora lontana, oscura e coperta da una fitta nebbia. Ho perso cose che credevo necessarie e alcune lo sono, soprattutto il lavoro e le speranze di cambiamento sano che avevo riposto in questo anno. Stavo cercando casa, ora che la situazione economica si era stabilizzata e il lavoro non richiedeva più certi compromessi. Stavo iniziando a sistemare i denti. Stavo acquisendo nuove, meravigliose capacità lavorative. Stavo iniziando tante cose...
Soprattutto avevo iniziato a credere che il rapporto con una persona stesse evolvendo, invece si avviava ad una lenta agonia, cui lei ha posto fine a settembre ed io pochi giorni fa, uccidendo le mie ultime illusioni insensate. Nel naufragio ho messo del mio, non lo nego.
Mi manchi, ma più mi manchi, più sento la necessità che tu sia lontana. Per questo ho smesso di seguirti su instagram e twitter, ma non su facebook. Sono contento che abbia smesso di mettere like e affini, che vivevo come carezze e pugnalate. Non so se abbia mai realmente realizzato quanto fossi innamorato. Domande inutili, che volano via nel vento, insieme alla tristezza. Ti ho donato una rosa per avermi spezzato il cuore e sono andato via. Non posso e non voglio più elemosinare amore.
Posto in questi termini, il 2020 si presta ad essere incoronato come il mio anno peggiore sulla Terra, invece no. Tutta questa merda è servita come concime, per far fiorire qualcosa.
Caro, infame 2020 mi hai costretto a mettere in discussione me stesso, capirmi e prendere in mano la mia vita, trasformandomi in un soggetto più che mai attivo. Mi hai obbligato ad uccidere il tizio che ero, per farne sorgere uno nuovo e di questo te ne sarò sempre grato. Ti sei preso tutto e mi hai donato me stesso. Mi sei costato lacrime amarissime, che hanno innaffiato il sorriso.
Abbracciare e comprendere il proprio io, compreso il bambino triste che ci è rimasto dentro, è un atto rivoluzionario. Aiuta a comprendere le cause di tanti errori, sofferenze, inutili ripetizioni e pone basi solide per il domani. Non so se sia stato forte o disperato, per liberarmi dei pesi passati, ma è successo. Ora voglio volare.
2020, dubito che potrò mai scordarti.
C'è un prima: la persona che ero. Un durante: quella che sto diventando. Un dopo: non sono un veggente.

Si affaccia all'orizzonte un nuovo giro di orbita. Convenzionalmente lo indico, come tutti, dalla mezzanotte che divide il 31/12 dal 1/1, ma, da buon amante dei saperi antichi, calcolo per me l'anno dal solstizio d'inverno, tra meno di 10 giorni.
2021 non so cosa chiederti o aspettarmi da te.
Non inizi sotto i migliori auspici, questo è chiaro, ma ti chiederei di non essere una ripetizione o un peggioramento del 2020. 
Vorrei che portassi a tutti quiete e tranquillità, magari economica (quel che vedo in giro adesso è terrificante). Sii clemente, magari benigno, con coloro cui voglio bene, che non conosco e verso cui ho provato sentimenti negativi (i sentimenti negativi fanno parte di quel che il 2020 si è preso, spero per sempre) e se puoi porta loro bei doni.
Avrei tante cose che vorrei, che sfuggono dal mio controllo, ma non le chiederò. Voglio conquistare la vetta con le mie forze e so che sarai un anno di battaglie, magari se potessi concedermi un campo di battaglia un po' meno sfavorevole, te ne sarei grato.
Ti chiedo solo che tu possa essere il primo anno di una nuova vita ben spesa.
Druso è morto nel 2020 ed ora sono nella fase di transizione verso Marco: la battaglia più dura che abbia mai affrontato. Ho regalato al 2020 la mia corazza, abbracciato la mia fragilità ed ora attraverso l'abisso che ho osservato a lungo, come un equilibrista su un filo. Cadere giù, finendo di nuovo tra le braccia della depressione (che non è tristezza, come pensano molti, ma apatia), nel ripetere gli stessi errori cagionati da qualcosa accaduto nell'infanzia (cosa? boh... sono in analisi per questo), è un attimo, ma per la prima volta non sono aggrappato a illusioni o vane speranze, ma al mio cuore che arde come non mai e al mio intelletto che adesso accetta il cuore e la pancia e collabora con loro. 
L'Io non è padrone a casa sua, schiacciato tra Es e Superego, ma questa volta ha deciso di seguire le pulsioni dell'Es, anziché rifiutarle e ridimensionare quel Superego che da sempre funge da ancora, creandosi un cantuccio felice in cui vivere e operare, nonostante quei due.
Quali siano i desideri in fondo al mio cuore e i sogni nel cassetto lo sai, perché sei il tempo e il tempo sa tutto. Dammi solo una battaglia per il miglioramento che sia degna di essere combattuta, che faccia di me l'alchimista, creatore d'oro, che ambisco a diventare, per fare realtà di ciò che sogno.

Marco Drvso

martedì 17 novembre 2020

Cenere al vento

Questa sera smetto di fumare. Sarò intrattabile per 3 giorni, lotterò per non abbuffarmi e guadagnerò una settimana di vita, ma la passerò chiuso in casa, per qualche decisione governativa.

Di tante creature mitologiche, la più affascinante è la fenice, presente in quasi tutte le mitologie euroasiatiche, con poche trascurabili differenze. Qualcuno la rappresenta come un piccolo rapace, dalla coda lunga e infuocata, ma fondamentalmente è un pavone che sa volare.
Caratteristica fondamentale di questo uccello mitologico è, una volta giunto al termine di un ciclo temporale, costruirsi un nido a forma di uovo, entro cui si rinchiude, per bruciare e rinascere dalle ceneri.
La fenice raccoglie la sua vita e costruisce l'uovo. Prende le cose belle e quelle brutte, l'oro e il metallo vile e se ne circonda, rinchiudendosi nella tenebra più fitta e aspetta, mentre marcisce lentamente e i vapori di tale putrescenza si alzano verso la Luna, in attesa del Sole, cui spetta l'onore di appiccare il fuoco.
Cari alchimisti vi ricorda qualcosa?
Discutevo ieri sera con la mia analista del fatto che quella che a settembre indicavo come mia rinascita, in realtà, era l'inizio della combustione (tra l'altro la terza fase del processo alchemico).
Nell'uovo ha subito calcinazione e distillazione ogni momento della mia vita. Alcune parti resteranno e formeranno le piume delle nuove ali, altre stanno volando via, per mia somma gioia. Sono persone (rapporti tossici), delusioni, abitudini, vizi (non tutti, mi tengo qualche piacere della vita), idee, situazioni e via discorrendo. La fase di combustione è spietata: elimina ogni traccia di metallo vile.
Talune parti di questo lungo elenco sono già volate vie, mentre altre hanno bisogno di una seconda, malinconica occhiata: un tempo tenevo loro, molti più di quanto avessi ammesso, anche a me stesso. Circondato dalle fiamme, sto dando loro l'ultimo saluto, in fondo pregando che mi diano un buon motivo per salvarle, mentre le nuove abitudini e desideri nascono e si fanno sentire con primordiale potenza e sono meravigliosi.
È orribile allungare la mano a qualcuno, sperando che capisca che questo è quasi certamente un addio. Offri un nuovo inizio, per qualcosa di ovviamente diverso (altrimenti che senso avrebbe ciò che sto facendo?), ma non capiscono e non si ha più voglia di inseguire e si lascia che la fiamma faccia il suo dovere. Un malinconico addio, senza recriminazioni, senza spiegazioni, mentre li si manda via come fumo al vento, sapendo che se mai tornassero, troverebbero un'altra persona.
È un momento molto particolare della mia vita. Sto letteralmente decidendo cosa tenere e cosa buttare, mentre vedo cambiare il mio modo di pensare e agire e la cosa mi piace.
Non credo di essere mai andato così d'accordo col tizio che vedo nello specchio. Mi piace il suo modo di pensare, la rinnovata cura del corpo e il suo modo di ardere. Non lo avevo mai visto così pronto a volare, cadere, rialzarsi, con un sorriso beffardo.
Come ho scritto ieri, ci si prende un momento per osservare ciò che fu, capire il quadro completo e proseguire. Saluto ciò che sta diventando cenere, senza lasciarmi nulla, se non qualche ricordo caro e preziose lezioni. Osservo svanire illusioni e sentimenti, che si spengono come candele esauste, mentre il sollievo prende il posto della malinconia e fiorisce un sorriso.
Non cambierei un solo momento della mia vita, perché se oggi sono qui a contemplare il nuovo inizio, nonostante la situazione ambientale certamente pessima, lo devo a tutti quei momenti, che stanno svanendo per sempre.

Marco Drvso

lunedì 16 novembre 2020

Osservare dalla debita distanza, bruciare e diventare stelle

 Non ricordo chi mi insegnò come osservare un quadro, ma ricordo bene la lezione.
Per osservare un'opera è necessario fare avanti e indietro. Allontanarsi, per avere la visione d'insieme, avvicinarsi per osservare i dettagli, allontanarsi ancora per inserire meglio i dettagli nel complesso e, eventualmente, ripetere la procedura.
Simile ragionamento si fa per osservare il mondo microscopico, fuochettando col microscopio (è l'azione di muovere la lente, per mettere a fuoco dettagli su un oggetto tridimensionale) e cambiando il grado di ingrandimento. Quel che vale per il microscopico, ovviamente vale per il macroscopico, ad esempio l'osservazione celeste.
Talvolta bisogna coprire, mettere un filtro tra sé e l'oggetto, per scorgere i dettagli o, semplicemente, poterlo osservare. L'esempio più semplice è il Sole: non lo si può osservare direttamente, senza perdere la vista.
In un certo senso, la vita funziona così.
Quando si è immersi in una situazione, qualunque essa sia, difficilmente si ha la capacità di osservare l'insieme e ci si fissa sui dettagli. Sono il primo a riconoscere che il diavolo sia nei dettagli, ma senza il quadro completo, il dettaglio non ha valore. Bisognerebbe imparare a fare sempre un passo indietro ed osservare, ma quando si è coinvolti è spesso impossibile.
Il panorama si mostra solo una volta conclusa la vicenda, quando la si analizza a freddo.
Questo è uno dei grandi limiti della nostra esistenza: viviamo la vita in una direzione, verso il futuro, ma la possiamo osservare solo nell'altra. Osservazione che va svolta con distacco e, soprattutto, per breve tempo: lo stretto necessario per comprendere la lezione e proseguire. Mai fissarsi col passato: è andato e non può essere modificato!
Vi è la vicinanza temporale e, ovviamente, quella fisica.
Prendo spunto dal racconto di 2 noti annegamenti: Narciso e Icaro (è caduto dal cielo, ma tecnicamente è morto annegato in mare). Il primo muore per inseguire una illusione sterile, il secondo per spirito di conquista. In un certo senso, Narciso è l'istinto di morte descritto da Freud, che abiura al mondo esterno, morendo in sé, mentre Icaro incarna la volontà di potenza di Nietzsche: l'uomo che sogna di toccare il Sole, qualunque cosa accada (mi spiace che sia ricordato come un imbecille avventato; anche se avvicinarsi al Sole, con le ali di cera, non è stata esattamente una furbata). Icaro somiglia molto a Satana, che mette in piedi una guerra celeste, pur di essere guardato dalla divinità, ma nel momento in cui incrocia il suo sguardo ne viene annichilito e cade dal cielo, come un tizzone ardente.
Vi sono situazioni in cui bisogna gettarsi nelle fiamme, per giungere a qualcosa, col rischio di fare la fine del pollo ed essere servito con un contorno di patate o quella della fenice, che rinasce dalle proprie ceneri e riconquista il cielo.
Mentre il pollo finisce la sua storia in modo inglorioso, la fenice impara. Osserva l'errore mentre si consuma e si prepara alla nuova vita, portando con sé l'esperienza: un Icaro che sa nuotare e si fa costruire ali più resistenti e un paracadute, ma non rinuncia al cielo e non odia il Sole perché è troppo caldo.
Essere felici, farsi male, comprendere e ricominciare, finché il cuore batte e c'è aria nei polmoni, questo è vivere. È lecito, talvolta, prendersi una pausa, prima di ripartire, lo fa persino il Sole al solstizio di inverno, nei racconti mitologici, per ben 3 giorni, ma bisogna poi rimettersi in gioco.

Quindi bruciate, amici miei.
Siate la fenice e la fiamma
brillate così forte che il Sole,
astro geloso e prepotente,
sia costretto a stare fermo,
nella contemplazione muta
del vostro fuoco immortale
e si vergogni di essere solo
quella stella che dona vita
e illumina i nostri giorni.
Fate piangere le stelle 
che nella loro luce gloriosa
e nei loro nomi altisonanti
mai sapranno brillare forti
come l'umano che da solo
riscopre la sua essenza 
riprende la sua vita
e diviene egli stesso
una stella danzante

Marco Drvso

venerdì 23 ottobre 2020

Il valore dei cocci

C'è un'immagine che gira da anni su facebook, in cui si mostra una tazza rotta, riparata usando dell'oro, che in descrizione riporta una presunta usanza giapponese (non ho approfondito). È molto bella, parla del riparare le cose, in modo che la frattura diventi qualcosa di bello e valorizzato, un monito che indica che a quasi tutto si può porre rimedio, se c'è la volontà.
Nei post precedenti ho descritto come il mio mondo sia andato in frantumi (lavoro, amore, prospettive, tutto spazzato via) e ciò mi abbia aiutato a riprendere in mano la mia vita, gettare via tutto il piombo che avvelenava il mio animo, lanciarmi nell'impresa di generare la mia stella danzante ed ora sto sistemando i cocci. 
Letteralmente una montagna di cocci.
Mi sovviene un aneddoto che mi raccontò mio nonno, riguardo alla battaglia di Stalingrado (lui non era li; pochi mesi dopo sarebbe andato a sperimentare l'ospitalità dei campi del Reich...): "i russi hanno vinto la battaglia perché i tedeschi hanno distrutto tutto. Una volta che non hai più nulla da proteggere, hai un problema in meno da risolvere e puoi dedicare ogni energia allo scopo principale" (in quel caso, ricacciare a casa i tedeschi).
Una piccola, preziosa, parte di questi cocci sono messi da parte, per essere riparati e abbelliti, quando sarà il momento, sperando che ci sia la possibilità. Tutto il resto è un cumulo esaltante, su cui sto mettendo mano.
Fin da piccolo ho un'abitudine: modificare gli oggetti rotti e farne altro. Porto un esempio pratico: i miei castelli di lego che "accidentalmente" cadevano, frantumandosi in decine di pezzi, per magia diventavano astronavi, sculture, panorami, etc. L'abitudine non è cambiata.
Approfitto di queste uggiose giornate di ottobre per dividere e valutare quei cocci, decidendo cosa farne. Li ho osservati per il tempo necessario, domandandomi cosa fosse importante e cosa no, cosa tenere e cosa buttare e a cosa non possa fare a meno.
Fatta la cernita ho iniziato a per creare il mio nuovo mondo. 
Qualcosa lo devo rompere ancora, magari solo levigarlo, perché la forma non è adatta a ciò che voglio ottenere, ma voglio salvare quel frammento e incastrarlo in altro. 
Qualcosa scopro che funziona bene se messo in un altro posto. 
Qualcosa resterà in frammenti, sullo sfondo. 
Qualcosa è intatto, per fortuna. 
Qualcosa si è perso.
Qualcosa si è ritrovato.
Qualcosa mi è toccato gettarlo via. Per alcuni cocci è stato facile, erano già sulla soglia per essere eliminati, per altri è stato straziante.
Qualcosa sta volando via, mio malgrado. Mi mancherà più di quanto non creda, ma non posso trattenere nessuno, né continuare ad inseguire, né restare come presenza in una situazione di cui difficilmente potrei fare parte. Magari, un giorno, ricostruiremo quei cocci, dandogli nuova forma.
In ogni caso: sono tutti cocci della mia vita precedente e anche i più inutili hanno un valore.
È un momento strano ed eccitante, Tutto è un nuovo e dinamico divenire, lanciato verso un futuro sconosciuto, in balia di un vento che non conosco.
Talvolta bisogna avere il coraggio di perdersi, per trovare la strada.
Una nuova vita prende forma e non so né cosa mi aspetti, né cosa verrà con me, né cosa riuscirò a costruire ed è tutto così meravigliosamente misterioso, che gettarsi, con in mano un cuore ardente dentro è una necessità, senza girarsi a guardare i pesi che non hanno più ragione di essere.

Marco Drvso

venerdì 9 ottobre 2020

Io non sono Druso

Questo è un racconto che credevo appartenere solo a me, ma ho scoperto essere una storia comune.

Esisteva un tempo un bambino troppo sensibile, per il mondo che lo circondava, nato in una famiglia decisamente disfunzionale, in un contesto quantomeno bizzarro. Lui amava sorridere, cercare sempre la posa perfetta per le foto, volere bene alle persone e interrogarsi sul mondo. Troppo "normale" non era, considerando che: i suoi ricordi più vecchi sono lui che sfoglia un libro sulla gestazione (gli era già chiaro tutto, tranne il primissimo passaggio), che interroga gente più grande sull'origine del mondo, rifiutando la storiella creazionista e costruisce mondi fantastici col lego e gli altri giocattoli. 
Purtroppo per quel bambino, era tanto timido, al limite della introversione totale e tanto, tanto solo. Non riusciva a capire la gente intorno a lui, soprattutto i troppi adulti da cui era circondato, che spesso lo caricavano di questioni troppo grandi, quando non era lasciato davanti alla tv. Coi suoi coetanei, al di fuori della scuola o degli amici della villeggiatura, quasi non aveva rapporti. I suoi amici erano i suoi giocattoli, gli unici a non continuare a ripetere: lascia perdere, non ce la fai.
Non aveva troppe pretese, sognava solo qualcuno che gli desse affetto, senza giudicarlo. È una richiesta troppo grande, per un bambino di 7 anni?
Non so quando iniziò tutto, ma so quando si videro i primi segni della sua abdicazione. Aveva 11 - 12 anni, quando qualcosa si ruppe. Quelli sono anni difficili, per tutti, ma per lui fu un vero inferno e senza che se ne rendesse conto, si trovò chiuso in una corazza, era nato Druso.
Apparentemente era sempre lui, ma nel pensare e nell'agire era diverso. La precisione aveva lasciato il posto ad un ridicolo pressappochismo, la voglia di brillare si era tinta di grigio spento, il sorriso aveva lasciato il posto ad una espressione piatta, al massimo a un mezzo sorriso col lato destro della bocca, controllato, come ogni passo che faceva. Una pavida imitazione di quel che era, troppo preoccupato di evitare problemi, anziché vivere: un fallimento totale. Se non altro, era simpatico.
Quella corazza lo schiacciava, ma lui non se ne rendeva conto, era certo di essere Druso, rimbalzando da un casino all'altro, da una fuga all'altra, pensando fosse vita, ma furono solo 30 anni di prigionia. 
La paura di essere felice è una prigione tremenda.
Druso è il nome della depressione e del fingere di essere sani, mentre dentro di te urli, strepiti e piangi, ma nessuno può sentirti, allora ti lasci andare, come se fossi morto, salvo qualche momento in cui riprovi a urlare, ma le mura di quella gabbia sono ormai troppo spesse e il fiato è sempre meno e sei chiuso nel mausoleo di te stesso; che l'armatura protegge, a tempo pieno, boicottando in tutti i modi chi vi è sepolto dentro. Un bambino che piange da solo, tappandosi le orecchie.
Solo qualche volta riusciva ad emergere: brevi, luminosi istanti di vita, di cui serbare gelosamente il ricordo, ma subito la corazza lo avvolgeva come rose rampicanti senza fiori.
Un giorno, non particolarmente importante, è successo qualcosa: si è formata una crepa in quella tetra prigione e un singolo raggio di Sole è entrato, ma c'è voluto tempo, prima che avesse il coraggio di sbirciare fuori.
Dapprima occhiate sfuggenti, timorose, fino al momento in cui si è specchiato negli occhi delle persone più care, quegli amici che non era riuscito a far scappare e quel che ha visto non era un mostro. 
Così, come il conte di Montecristo, ha iniziato a scavare, ma al contrario suo aveva solo le unghie, ma non importava. Mentre scavava, raccoglieva tutto il suo essere e come l'alchimista poneva ogni cosa nel suo crogiuolo, per la fase oscura.
C'è voluto tanto tempo, fatica, batoste e soddisfazioni, ma quanto è caldo il Sole sulla pelle nuda e che bello vedere il mondo con i propri veri occhi, muovendo i primi passi sopra la corazza in pezzi.
Qualcosa è rimasto inevitabilmente attaccato, ma con tutta la forza a disposizione lotto perché si stacchi e nulla si riattacchi più. Il bambino non c'è più, neanche la maschera.
Ciao Mondo.
Io sono Marco. 
Sono felice di aver condiviso queste lacrime con te e poterti, finalmente, incontrare.
Questo è il mio cuore, la sola cosa realmente mia e la voglio condividere con te, chiunque tu sia. Lo faccio per quel bambino che non era riuscito, per quella maschera che sperava di proteggerlo e per me, che lo voglio sentir bruciare come una stella danzate. Lo condivido, senza voler nulla in cambio, perché è così che voglio e non aver paura di toccarlo, non si può rompere. Lo si può solo riempire e far ardere ancora più forte, sia che lo si colmi d'affetto o lo si colpisca, ormai brucia.
Magari può sembrare timoroso, ma non è paura verso l'esterno o la vita: è solo frastornato per quel che sta vivendo e si era negato per troppo tempo. Magari potrà sembrarti bizzarro, perché siamo nati da pochi giorni: tutto è stupendamente nuovo.
Dei due che mi hanno preceduto è rimasto qualcosa, soprattutto i nomi. Sono come medaglie che mi sono appuntato al petto, perché mi ricordano di aver vinto la battaglia e quanto sia stato facile cadere in quel tremendo baratro, duro uscirne e meraviglioso essere qui. Insieme sono il mio "nom de plume", perché scrivere era la sola cosa che li accomunava.
Questo cuore serba le emozioni e i sentimenti di una vita, belli e brutti e tutti insieme sono la fiamma che lo fa brillare, che mi fa vivere e voglio condividerlo.
Ora vado a fare ginnastica, ho scoperto che avere un corpo è meraviglioso; poi mi vedrò con amici: parlerò, riderò, magari mi arrabbierò (chi lo sa?), ma sarà comunque stupendo e andrò a dormire, in attesa del nuovo giorno.
Ciò che è stato non può essere cambiato, ma sono felice che sia stato, altrimenti ora non sarei qui. Non so chi camminerà con me, né quanto sarà folle il mio volo, né dure le cadute, ma le voglio vivere tutte, senza risparmiare fiato. 
Grazie a tutti. 
Vi amo e vi dono il mio cuore e anche per questo non intendo rileggere il post, perché così è nato e così resterà. Questo non è un messaggio in bottiglia gettato nel mare della rete: è un fuoco d'artificio!
 
Marco Drvso

giovedì 8 ottobre 2020

Qualche giorno dopo aver smesso

La vita è una poesia fatta di sigarette. Qualcuna fumata per piacere, qualcuna per noia, qualcuna per rabbia e, le peggiori, per una sorta di falsa necessità.
C'è chi cerca le risposte nel fondo di un piatto, di un bicchiere, nel fumo svolazzante, nelle relazioni tossiche o altro, ma sono tutte abitudini mortali, fini a loro stesse. Sai di farti del male, ma un perverso meccanismo ti impone di andare avanti, finché arriva quella sigaretta amara e qualcosa si attiva.
Può passare anche tanto tempo, prima del giungere della piena consapevolezza, ma quel qualcosa si è insinuato e lentamente ha strisciato, prima nel profondo, piantando un seme, poi il seme ha iniziato a crescere, infine arriva la risposta. In tutti quei giorni si è fumato, cercando di ritrovare l'antico piacere, ma non se ne intravede più neanche la parvenza e anche la falsa necessità inizia a scemare lentamente e cresce il fastidio, insieme a quel seme piantato, come in The soud of silence, di Simon e Garfunkel.
È come una folgorazione. Sapevi da tempo che tutto ciò era dannoso e avevi già visto le avvisaglie di altro, cercando di guardare altrove, ma è arrivata la sveglia. Improvvisamente, ci si domanda il perché di tanta ostinazione e prendi le distanze. 
I primi giorni sono tremendi. Un senso di vuoto ti attanaglia e ti senti morire, mentre allontani quella fonte di sofferenza. Lentamente tagli i ponti, in punta di piedi, senza fare inutile rumore, perché urlare contro un muro non serve, anche se vorresti farlo. Poi viene il turno di oggetti di cui liberarsi: qualcosa lo si getta, qualcosa lo si distrugge (è tanto liberatorio). Per ultimo, il ricordo del piacere che cerca di resistere, ma quel sapore gramo ha contaminato anche lui.
Infine, ecco quella mattina d'autunno in cui dai un taglio netto e deciso a quell'abitudine nociva. Non indorerò la pillola: è una giornata assolutamente di merda! Dentro di sé si sente una battaglia tra l'abitudine che vuole tenere pieno quel vuoto creatosi e la volontà che non ne può più. Uno scontro tra ricordi belli e brutti, felicità e malessere, desiderio e realtà. I pensieri rimbalzano come palline in un flipper, persino il corpo si agita e qui si scopri la cifra della propria volontà e dell'amor proprio. 
Pensavi di essere alla combustione (e per alcuni versi ci si è arrivati), ma stai ancora calcinando gli elementi nella fase buia del processo alchemico, ma sai che va fatto, a tutti i costi. Ci sei già passato, sai che la fase acuta dura solo pochi giorni, poi è un susseguirsi di albe meravigliose.
Non sai se ci saranno altre sigarette, ma cammini leggero verso il domani, spiccando quel volo che il piombo ti negava e sei di nuovo felice, padrone della vita, augurando gioia a tutti, andando via, a cercare la propria.

Marco Drvso

domenica 4 ottobre 2020

Io e la pietra filosofale

In questi ultimi messaggi in bottiglia lanciati nel mare della rete, ho spesso usato la metafora della pietra filosofale. Mi sembra doveroso scrivere un pezzo su questo argomento, che già ho trattato in passato, ma non ho piacere a ripescare dall'archivio, perché quelle erano le parole di un io che non sono più.
La leggenda, che si fa risalire al mitico Ermete Trismegisto, il tre volte maestro ermetico possessore della tavola smeraldina, narra della possibilità di creare un manufatto capace di concedere l'onniscenza, l'immortalità e convertire i metalli vili in oro; quest'ultimo punto è quello che ha accesso la fantasia dei più, la trappola degli stolti. Da migliaia di anni se ne parla e scrive, a partire dai mistici egizi, passando per Platone, Agostino, fino ai giorni nostri, sia in consessi iniziatici, sia nella cultura di massa e in quella colta, ad esempio: il Mutus Liber, testo iniziatico con alcune delle più belle incisioni che abbia mai visto, Harry Potter e Il flauto magico di Mozart, meravigliosa opera intrisa di allegorie massoniche e saperi iniziatici (Mozart era massone).
Doverosa precisazione: non credo nell'esistenza del sasso magico, come descritto nella cultura di massa e nessuno mi toglierà dalla testa che i vari Saint Germain, Cagliostro e altri che hanno millantato di aver mutato metallo vile in oro, stessero mentendo. Nonostante ciò, io so che esiste la pietra filosofale, so come ottenerla e lo sto per descrivere. Sia chiaro: sarò breve, mi limiterò ai passaggi fondamentali, non spiegherò ogni riferimento, né discuterò le enormi differenze tra il sapere scientifico moderno e quello alchemico.
Bisogna giungere alla fusione dei quattro elementi aristotelici, delle forze del mondo, il mondo materiale e quello trascendente, la vita e la morte, in un solo oggetto. 
L'alchimista pone la materia nel crogiuolo e lo chiude nel suo athanor per la prima fase, quella nera: la decomposizione. Si inizia dalla morte, sotto Saturno.
La seconda fase è bianca e avviene sotto la Luna, la forza femminile, la rinascita. Tramite calcinazione e distillazione si ottiene la prima essenza.
La terza fase è gialla e chiama il Sole, la forza maschile. Le operazioni sono la combustione e la sublimazione.
L'ultima fase è rossa ed è Mercurio (in greco Hermes, Ermete) a presiedere. Il composto coagula, avviene ciò che è definito le nozze alchemiche; le coppie degli opposti si fondono e sorge l'uno. Tamino e Pamina finiscono il loro viaggio
I più, giunti a questo punto, si limitano a ridere delle antiche credenze (alcune sono strampalate) o chiedere dove sia l'oro. Costoro non hanno approfondito o non hanno capito.
Una piccola parte intuisce. Tra loro, questo indegno Papageno cui tanti anni fa una persona saggia indicò la via, ovviamente in modo criptico, affinché non donasse perle ai porci.
Per prima cosa, l'alchimista deve imparare. Le lezioni si svolgono sia sui libri, sia nel mondo. È suo dovere imparare a distinguere il sapere e scegliere cosa coltivare e se è fortunato, può incappare in maestri che lo aiutino, se meritevole, nel suo cammino. Un cammino comune a molte filosofie, in tutto il mondo.
Una volta raggiunto il sapere o una parvenza di esso (per il Sapere non basta una vita), ha gli strumenti per iniziare: accetta di morire. Prende la sua anima, colma di esperienza e la chiude nel suo cuore caldo, un luogo dove solo lui giunge e lascia morire ciò che lo avvelena. Forse è il passaggio più duro, perché soppesare la propria vita fa male ed è facilissimo fuggire e abbandonare l'opera. È il cammello di Nietzsche che abbandona i pesi.
Quella massa informe ora va divisa e la parte sana va portata alla luce. L'alchimista rinasce (viene alla luce). Ciò che era non è più. Qualcosa di nuovo è uscito dalle tenebre, come un soffio, ma è ancora informe, facilmente corruttibile. Questo è il passaggio più delicato, è un attimo mandare tutto a rotoli. Ciò che si è ottenuto è fragile, indifeso: le corazze sono cadute, c'è solo l'essenza, che è un germoglio bisognoso di cure.
Quella massa va fatta brillare e danzare come una stella, la terza fase. Da illuminata deve diventare luminosa, ma anche a questo punto si corrono dei rischi. Può sorgere una inutile superbia, un leone rabbioso convinto di essere giunto alla fine dell'opera, che si lancia nella savana, senza ancor aver appreso come muoversi. Quella superbia è un peso pronto per il cammello.
Io credo, spero, di essere arrivato a questo punto. Sento quella tragicomica superbia, ma ho imparato a distinguere il piombo e l'oro. Devo proseguire la combustione, devo bruciare a temperature altissime, affinché tutto sia libero. Voglio amare, soffrire, ridere, piangere, urlare, correre, fino allo sfinimento, affinché ogni parte di quella massa calcinata e distillata possa vivere e splendere, come una stella bonaria, che dona luce, senza ambizioni fallaci, senza chiedere nulla indietro. In un certo senso è una nuova morte, nel senso più ampio: il cambiamento.
La fase successiva sarà la più bella. So esattamente in cosa consisterà, ma non voglio parlare di ciò che conosco in via teorica e non so se raggiungerò. Se dalle fiamme gialle seguirà la sublimazione, verrà la luce rossa, la coagulazione e nascerà il fanciullino. 
Qualcosa di nuovo, ancora sconosciuto, che saprà essere sé e l'altro da sé, qualcosa cui ambisco con tutte le mie forze. Qualcuno che saprà toccare il piombo che lo circonda, rendendolo oro, da donare agli altri. Ecco la pietra della sapienza. 
Il lungo cammino doloroso dell'alchimista si compie: ha la sapienza di chi decide la sua vita, trasforma il pesante piombo che avvelena la vita altrui in oro, senza tener nulla per sé e le sue azioni rendono immortale il suo nome, ma non gli interessa. Questa è la mia ambizione.
Magari ho sbagliato tutto e il significato della pietra è un altro, ma questo è il cammino che voglio seguire.

Marco Drvso

sabato 3 ottobre 2020

Debussy in the rain

Oggi ho vissuto un momento che potrei definire di grazia. Non uno dei 10 migliori, ma certamente uno dei 20.
La cosa inizia in metropolitana. Come tutti, sono chino sul mio telefono, senza troppa attenzione e me ne stufo subito. Così alzo lo sguardo, per osservare tutta quella umanità: monadi chiusi nel proprio guscio, persi nel telefono. Non pensavo che la verde fosse così interessante da osservare. Un lungo serpentone fatto di persone che vanno da qualche parte, ignorandosi l'un l'altro.
Scendo alla mia fermata, in centro e frugo nella libreria musicale, in cerca di qualcosa e così, senza un reale motivo, decido di ascoltare una compilation di brani di Debussy e Ravel.
Ho sempre adorato le giornate piovose, con la loro luce diffusa, i rumori ovattati e la pioggia che batte il suo ritmo. Le trovo assolutamente rilassanti.
Apro l'ombrello e inizio a camminare, con un brano di Debussy negli auricolari.
Non so cosa sia. La luce malinconica delle nuvole autunnali, il ticchettio della pioggia sull'ombrello, la bellezza eterogenea del centro di Milano, fatta di palazzi antichi e nuovi (regalo delle bombe americane del '43), quella musica meravigliosa, in cui si alternano tristezza e gioia o l'unione di tutto, ma mi sento leggero. Cammino con un sorriso ebete, in mezzo a gente che corre per ripararsi dalla pioggia, irrimediabilmente persa nei ritmi della modernità e sono un tutt'uno con l'universo.
Un mezzo sorriso gaudente, con il lato sinistro della bocca (quello che ho sempre censurato a causa della mia dentatura non esattamente perfetta), gli occhi socchiusi, che osservano la bellezza che mi circonda senza stress e un passo lento, cadenzato dalla musica,
Vivo un momento perfetto, tutto mio. Il mondo sembra fermarsi per viverlo con me, condividendo la mia intimità. Il cuore è leggero, come il corpo che sembra fluttuare nell'aria, sospinto dal vento e dalla musica.
Mi fermo, chiudo gli occhi, ascoltando la musica e lo scroscio violento della pioggia, che un po' mi bagna, ma non mi interessa. Tutto il superfluo scivola via, come è giusto e resto io: uno e tutto con il mondo, quasi lo sento respirare con me.
Vivo quell'istante con intensità, come se tutta la mia vita fosse stata vissuta per arrivare a quel momento e scopro una pace che non ricordavo, qualcosa che trascende la gioia più grande. Sono in centro a Milano, ma danzo con le stelle.
Inspiro, finisce il brano e torno al mondo reale, ma non è un ritorno traumatico. Mi sento come un bambino che ha pianto, liberandosi di tutto e sono felice.
Poche volte ho provato una simile sensazione, paragonabile alla buddità, ma questa volta non svanisce totalmente e mi segue per tutta la giornata e scopro che i pesi sono svaniti, sono libero.

Marco Drvso

martedì 29 settembre 2020

Dove il mondo è diverso

Oggi ho visto la cosa più triste e nel contempo più illuminante di questi anni.
Ero alla mia scrivania, riflettendo su alcune questioni, in particolare su quanto sia bello il nuovo corso che la mia vita inizia a prendere. Nuovo modo di pensare, di pormi al mondo e affrontare ogni questione, ma ho ancora un piccolo tarlo che mi logora. È piccolissimo, il bastardo, ma abbastanza insistente da non fermarsi davanti a nulla, come la sabbia del deserto che si infila pure in un orologio sigillato.
Il ticchettio di un vecchio orologio meccanico mi ha distratto. Pendeva solitario dal muro, col suo ticchettare fastidioso, mostrando un aspetto inquietante: la lancetta dei secondi scattava e tornava indietro, ripetendo sempre lo stesso secondo. Un eterno restare alle ore 4, 1 minuto, 42 secondi (non è una metafora, è l'ora che segna; ho appena verificato), consumando la batteria, vivendo un solo secondo, mentre il mondo va avanti.
Quel secondo è il tarlo. 
Quel tarlo è l'ultimo piombo.
Sto volando leggero, finalmente vedo le stelle in un modo che mai avrei immaginato e qualcosa vuole ributtarmi giù. Un frammento di piombo nel metallo prezioso che ho prodotto, che potrebbe inquinare tutto, portarmi a terra e bloccarmi le ali.
Per colpa sua, mi è capitato di guardare giù e domandarmi se potessi portarmi dietro qualcosa e insieme a quel piombo ho visto la cosa che più temevo, prima di lanciarmi: il mio angolo di tenebra, dove un tempo mi rintanavo e in cui ebbi la sfortuna di restare ingabbiato, illudendomi che fosse un luogo magnifico (era anche il primo titolo del blog). Un luogo orrendo, simile a un orologio che ticchetta sempre lo stesso inutile secondo.
Quello è un altrove che non mi appartiene più, di cui, ormai, fatico a comprenderne le ragioni. Mi guardo dietro e non capisco come ci fossi finito, come diavolo ragionassi, di cosa avessi paura. L'altrove che ormai guardo con curioso distacco, di cui non ho paura, né bisogno: un monito. È stato l'antro dell'alchimista in cui ho prodotto il primo oro, poi la cella del piombo.
Quassù il mondo è bello, con i suoi alti e bassi, piaceri e complicazioni, gioie e dolori, ma soprattutto è.
Guardo la mia piccola pepita di metallo prezioso, frutto alchemico di lezioni e tentativi ottenuto da tutto quel piombo. Sono sentimenti, emozioni, anche dolori (le lezioni possono essere dolorose, quanto formative) del mio cammino, ma c'è quel piccolo SE, che alimenta ciò che non deve.
È già successo che dei se rovinassero tutto, vanificando la lezione. Questa volta ho imparato e non intendo ripetere l'esame. Lo lascio cadere e per me tengo solo quel sorriso che mi apriva il cielo, nulla più. Quel secondo è passato, ora ne voglio di nuovi.

Marco Drvso

lunedì 28 settembre 2020

Sinnerman

I depressi non scrivono, come gli ossessivi che si accontentano del surrogato rassicurante non vivono.
Mi sto piacendo in questa nuova versione ad ali spiegate. Quest'anno ho praticamente perso tutto, però non mi sono mai sentito tanto vivo. (Prima di proseguire, consiglio la lettura del post precedente a questo link)
Sto vivendo giornate e serate piene, prive di pensieri, godendo il presente, ad ali spiegate.
Non mi interessano più né il passato, né le situazioni che si posso creare nel presente. Vivo il momento, privo di pesi e distrazioni, anche dolorose, perché così è giusto. Se esiste un paradiso, mi sono comprato il biglietto di ingresso, più e più volte, ora ho il diritto e il dovere di vivere ascoltando i miei bisogni, mettendo Io davanti a tutto. Sia chiaro: sia mai che io provochi volontariamente dolore ad altri, ma se devo scegliere su chi fare felice tra me e chiunque altro, prima vengo io.
Sto imparando a volare, lentamente voglio sempre più toccare il Sole. Voglio goder di miei sensi il rimanente, privo di piombo, lontano da quel che sono stato.
Io sono uno scrittore, magari non bravo, ma mi nutro di vita, per creare le mie parole. Sono il peccatore che quella vita vuole gustare.
I personaggi dei miei racconti godono di vita nuova, perché io godo di vita nuova e, finalmente, li sto sistemando, dando loro la dignità per essere pubblicati (pecunia permettendo; l'attuale situazione economica è devastante; 'sti cazzi!).
Ora il bisogno è sbagliare, peccare, vivere.
Sinceramente non credo in un al di là, ma se ci fosse il proverbiale San Pietro con le chiavi o Maat con la piuma, so di poter andare al loro cospetto col cuore leggero. Ho dato tanto, forse troppo e rarissimamente ho chiesto. Adesso prendo, senza cattiveria, ma quel che è mio e mi spetta lo voglio e lo prendo.
Unendo la metafora nietzschiana delle tre metamorfosi, alla visione relativistica dell'universo, che tanto somiglia alla visione tolemaica, con il centro in noi (Terra relativa) e l'inferno nel centro (andate a vedere i post del 2009), il cammello è sceso negli inferi, col suo carico di piombo, come fecero Odisseo, Enena e Dante, cercando le risposte e il cammello è diventato leone, il sacro no, uscendo a riveder le stelle nella forma del fanciullo, col suo carico di metallo prezioso, tanto lucente, quanto leggero.
Il fanciullo pecca alla vista dei troppi che vivono secondo gli schemi dettati dalla società e dalle loro manie, però è felice. Vive il contatto visivo e fisico come un gioco, ma per ultimo china lo sguardo, con un sorriso beffardo. Ride di sé e ride degli altri. Ride con sé e ride con gli altri, perché questa vita altro non è che un gioco, agli occhi dell'universo. È leggero e brillante e scopre le sue ali, con voli sempre più arditi e goduriosi, domandandosi perché il mondo scelga di non essere felice, accontentandosi delle briciole.
Il fanciullo sa che se mai verrà quel giorno cantato da Nina Simone, non correrà dalla roccia, dal fiume, dal mare o dal signore per farsi nascondere, ma nudo si porrà al giudizio, esclamando: -non ho fatto male, ma ho goduto e se questo è sbagliato, allora sono il peccatore- e sorridente andrà in contro al destino, come al marinaio che spavaldo va incontro alla tempesta, come Icaro che tocca il Sole.

Marco Drvso

domenica 27 settembre 2020

Il valore di una caduta rovinosa

Un tempo ero convinto che non tutti nascessimo con le ali, perché così mi avevano insegnato a pensare e a fallire, però questa visione mi è sempre stata stretta.
Come Dedalo e altri dopo di lui, ho cercato di fabbricarmene, ma quel pensiero invadente ha sempre fatto in modo che permettessi ad altri di distruggerle, mentre spiccavo il volo. A volte cadute rovinose, altre volte cadute utili, che insieme ai segni di cui andare fiero (la cicatrice di chi osa è una medaglia), hanno lasciato la lezione di cui avevo bisogno e sono state di sprono a creare ali sempre migliori e qualche volta ho volato, alto nel cielo.
Una volta spiccato il volo, difficilmente si accetta di restare a terra e quando vi si è costretti non si sta bene, ma certe cadute mettono la paura di volare. Periodi in cui si è accettato di saltellare nel fango, abbracciando quelle ali distrutte, come un tesoro necessario, da proteggere con la vita. 
Non capivo che quel tesoro fosse solo un peso e il problema. Era restare attaccati al passato e ad una illusione, esistendo in modo sterile e inutile, segregato in una danza con un passato morto, col solo risultato che le nuove ali avrebbero dovuto portare un peso maggiore: la zavorra inutile che non sapevo abbandonare.
Sempre più pesanti e corazzate le ali nuove, sempre maggiore il peso della zavorra, ma così non si vola. Sono solo balzi, che spaccano le ginocchia in decollo e atterraggio.
Infine, un giorno cadi rovinosamente di faccia e tutto quel peso ti crolla addosso, schiacciandoti, proprio quando le ultime ali che hai creato ti hanno quasi portato in alto, dove sogni di tornare. Sei schiacciato a terra, con una persona che infierisce e succede qualcosa.
Vedi uno dei frammenti delle vecchie ali e in quelle riconosci le ali che ti hanno appena troncato e ti poni una domanda: Che stia rifacendo sempre gli stessi errori? 
In psicologia è definita coazione a ripetere, nei proverbi è: seguendo sempre la stessa strada non puoi sperare di risultati diversi.
Per fortuna, insieme a chi ti abbatte, ci sono gli amici che ti sollevano. Mostri loro le similitudini tra le ali e questi, con un sorriso d'oro, capiscono che le tante parole che ti hanno detto negli anni stanno ottenendo un risultato e ti spronano a guardare meglio. Riguardi la zavorra e ti rendi conto che comuni errori erano presenti in tutte quelle ali posticce, dalle prime in cera alle ultime in acciaio e cominci a gettare via quei pesi inutili e qualcosa lo calpesti, prima di gettarlo (cosa fisicamente fatta). 
Iniziare a gettare via fa paura. Quella roba era sembrata una parte essenziale della vita, ma dopo il primo pezzo, ci si sente leggeri. Piano, piano si inizia a gettar via sempre più robaccia, sempre con maggior slancio e, infine, stacchi dalla schiena l'ultimo posticcio e con lui l'imbragatura cui da sempre hai attaccato le ali. Imbragatura che ormai sembra una gabbia.
Con tutta la forza, la strappi via e accade l'inimmaginabile.
Il passato diviene quel che doveva essere da tempo: sabbia volata via col vento. Le ferite, anche le ultime che si stanno ancora chiudendo, non fanno più male, anzi su alcune vien da ridere e quando si vede il proprio corpo riflesso, per quanto martoriato, ma ancora solido, ecco che compare quello che non si pensava di avere. 
Avevano sempre mentito.
Ecco le ali, quelle vere!
Non sono forti, perché sono sempre state ferme. Devo imparare a usarle, senza paura.
Finalmente si voltano le spalle a quel che fu, a tutta quella robaccia, troncando di netto e ci si incammina, muovendo quella parte di sé che si impara a conoscere. Inizia il nuovo inizio, il principio della vita da adesso in poi.
Da tutto quel metallo vile è stato estratto il solo oro di chi ho bisogno e quasi vien da ringraziate chi ha spezzato le ultime ali, ma ora voglio le stelle e se andrò troppo in alto e mi brucerò le ali, non importa, avrò toccato il Sole.

Marco Drvso