La leggenda, che si fa risalire al mitico Ermete Trismegisto, il tre volte maestro ermetico possessore della tavola smeraldina, narra della possibilità di creare un manufatto capace di concedere l'onniscenza, l'immortalità e convertire i metalli vili in oro; quest'ultimo punto è quello che ha accesso la fantasia dei più, la trappola degli stolti. Da migliaia di anni se ne parla e scrive, a partire dai mistici egizi, passando per Platone, Agostino, fino ai giorni nostri, sia in consessi iniziatici, sia nella cultura di massa e in quella colta, ad esempio: il Mutus Liber, testo iniziatico con alcune delle più belle incisioni che abbia mai visto, Harry Potter e Il flauto magico di Mozart, meravigliosa opera intrisa di allegorie massoniche e saperi iniziatici (Mozart era massone).
Doverosa precisazione: non credo nell'esistenza del sasso magico, come descritto nella cultura di massa e nessuno mi toglierà dalla testa che i vari Saint Germain, Cagliostro e altri che hanno millantato di aver mutato metallo vile in oro, stessero mentendo. Nonostante ciò, io so che esiste la pietra filosofale, so come ottenerla e lo sto per descrivere. Sia chiaro: sarò breve, mi limiterò ai passaggi fondamentali, non spiegherò ogni riferimento, né discuterò le enormi differenze tra il sapere scientifico moderno e quello alchemico.
Bisogna giungere alla fusione dei quattro elementi aristotelici, delle forze del mondo, il mondo materiale e quello trascendente, la vita e la morte, in un solo oggetto.
L'alchimista pone la materia nel crogiuolo e lo chiude nel suo athanor per la prima fase, quella nera: la decomposizione. Si inizia dalla morte, sotto Saturno.
La seconda fase è bianca e avviene sotto la Luna, la forza femminile, la rinascita. Tramite calcinazione e distillazione si ottiene la prima essenza.
La terza fase è gialla e chiama il Sole, la forza maschile. Le operazioni sono la combustione e la sublimazione.
L'ultima fase è rossa ed è Mercurio (in greco Hermes, Ermete) a presiedere. Il composto coagula, avviene ciò che è definito le nozze alchemiche; le coppie degli opposti si fondono e sorge l'uno. Tamino e Pamina finiscono il loro viaggio
I più, giunti a questo punto, si limitano a ridere delle antiche credenze (alcune sono strampalate) o chiedere dove sia l'oro. Costoro non hanno approfondito o non hanno capito.
Una piccola parte intuisce. Tra loro, questo indegno Papageno cui tanti anni fa una persona saggia indicò la via, ovviamente in modo criptico, affinché non donasse perle ai porci.
Per prima cosa, l'alchimista deve imparare. Le lezioni si svolgono sia sui libri, sia nel mondo. È suo dovere imparare a distinguere il sapere e scegliere cosa coltivare e se è fortunato, può incappare in maestri che lo aiutino, se meritevole, nel suo cammino. Un cammino comune a molte filosofie, in tutto il mondo.
Una volta raggiunto il sapere o una parvenza di esso (per il Sapere non basta una vita), ha gli strumenti per iniziare: accetta di morire. Prende la sua anima, colma di esperienza e la chiude nel suo cuore caldo, un luogo dove solo lui giunge e lascia morire ciò che lo avvelena. Forse è il passaggio più duro, perché soppesare la propria vita fa male ed è facilissimo fuggire e abbandonare l'opera. È il cammello di Nietzsche che abbandona i pesi.
Quella massa informe ora va divisa e la parte sana va portata alla luce. L'alchimista rinasce (viene alla luce). Ciò che era non è più. Qualcosa di nuovo è uscito dalle tenebre, come un soffio, ma è ancora informe, facilmente corruttibile. Questo è il passaggio più delicato, è un attimo mandare tutto a rotoli. Ciò che si è ottenuto è fragile, indifeso: le corazze sono cadute, c'è solo l'essenza, che è un germoglio bisognoso di cure.
Quella massa va fatta brillare e danzare come una stella, la terza fase. Da illuminata deve diventare luminosa, ma anche a questo punto si corrono dei rischi. Può sorgere una inutile superbia, un leone rabbioso convinto di essere giunto alla fine dell'opera, che si lancia nella savana, senza ancor aver appreso come muoversi. Quella superbia è un peso pronto per il cammello.
Io credo, spero, di essere arrivato a questo punto. Sento quella tragicomica superbia, ma ho imparato a distinguere il piombo e l'oro. Devo proseguire la combustione, devo bruciare a temperature altissime, affinché tutto sia libero. Voglio amare, soffrire, ridere, piangere, urlare, correre, fino allo sfinimento, affinché ogni parte di quella massa calcinata e distillata possa vivere e splendere, come una stella bonaria, che dona luce, senza ambizioni fallaci, senza chiedere nulla indietro. In un certo senso è una nuova morte, nel senso più ampio: il cambiamento.
La fase successiva sarà la più bella. So esattamente in cosa consisterà, ma non voglio parlare di ciò che conosco in via teorica e non so se raggiungerò. Se dalle fiamme gialle seguirà la sublimazione, verrà la luce rossa, la coagulazione e nascerà il fanciullino.
Qualcosa di nuovo, ancora sconosciuto, che saprà essere sé e l'altro da sé, qualcosa cui ambisco con tutte le mie forze. Qualcuno che saprà toccare il piombo che lo circonda, rendendolo oro, da donare agli altri. Ecco la pietra della sapienza.
Il lungo cammino doloroso dell'alchimista si compie: ha la sapienza di chi decide la sua vita, trasforma il pesante piombo che avvelena la vita altrui in oro, senza tener nulla per sé e le sue azioni rendono immortale il suo nome, ma non gli interessa. Questa è la mia ambizione.
Magari ho sbagliato tutto e il significato della pietra è un altro, ma questo è il cammino che voglio seguire.
Marco Drvso
Nessun commento:
Posta un commento