martedì 4 maggio 2010

Old School

Venerdì ho avuto uno degli incontri più ineressanti, piacevoli e densi di significato, degli ultimi anni. A scuola, per la conclusione del corso di cultura giapponese, è intervenuto il maestro Kengiro Azuma, noto scultore giapponese, trasferitosi a Milano una cinquantina d'anni fa.
È noto il fatto ch'io ami l'arte, ma non gli artisti (temo di averne conosciuto uno di troppo, in passato), infatti, come previsto quel signore orientale che parlava fuori dall'aula non mi fece alcuna impressione, all'inizio. Essendo cresciuto in una famiglia che mastica arte e avendo lavorato nei musei, mi riservo sempre un minimo di distima nei confronti degli artisti, soprattutto di quelli riconosciuti. Le ragioni sono molteplici e non ho voglia di tediarvi.
Malgrado i preconcetti, ho voluto sentire cosa avesse da raccontare quel signore che, alla seconda occhiata, mi aveva conquistato per un insieme di tratti caratteristici che ho riscontrato nei "grandi vecchi". Nelle mani, nell'espressione serena e vigile, negli atteggiamenti ho ritrovato tutto il fascino della classe di ferro dei nati tra il 1920 e il 1925 (giorno più giorno meno).
I primi sono quelli che partirono per la guerra a 20 anni e tornarono in tempo per andare a lavorare. Non ebbero modo di analizzare a pieno la situazione politica, perché erano cresciuti in un periodo particolare e spediti in guerra subito, senza possibilità di osservare la realtà delle cose (imboscati esclusi). I secondi furono i più fanatici, all'inizio, ma avendo visto dell'interno la situazione, furono i forieri del nuovo pensiero. Mio nonno mi parlava spesso di questi ragazzi più giovani che gli insegnarono la politica, dopo la guerra.
Mentre mio nonno apparteneva al primo gruppo, Azuma Kengiro appartiene al secondo. Inizio e fine della classe di ferro.
Il maestro si è seduto in cattedra ed ha rotto il ghiaccio con una battuta, dopodiché ha aperto le danze, parlando di sé e della sua esperienza. Trenta secondi dopo, avevo in mano il quaderno e prendevo appunti. Ha esordito dicendo "preferirei parlare in giapponese, perché il mio cervello non è buono e fa fatica con l'italiano, la matematica e altre cose".
Davanti a me avevo un uomo che, con innata serenità, mi parlava del suo passato da aspirante kamikaze (noticilla: i kamikaze giapponesi non hanno nulla da spartire con le teste di cazzo islamiche! in quel caso, kamikaze è un termine errato), partito in guerra a 17 anni, mosso da fanatismo religioso verso il suo dio, l'imperatore Showa (Hirohito).
Poco prima della sua partenza per la missione suicida, pensata come estremo tentativo di difesa della patria (altro che islamizzare il mondo, con atti d'offesa), fu firmato l'armistizio con gli americani e finì la guerra.
Ci ha raccontato del rumore cupo e strano che sentirono sulla sua portaerei, attraccata a 40 Km da Iroshima, seguito dalla visione della nuvola irreale, del suo paese distrutto e, soprattutto, della profonda depressione seguita al proclama del gennaio 1946, giorno in cui Hirohito dichiarò di non possedere natura divina.
Sentire il proprio dio, quello per il quale si stava per andare a morire, che dichiara di non essere dio, non deve essere piacevole....
"traforma il negativo in positivo" ha ripetuto più volte "perché nulla è tutto male e nulla è tutto bene". Dopo un anno di sofferenza, una sera ebbe l'illuminazione e scelse di diventare scultore (non è così semplice la questione, ma per motivi di spazio la accorcio).
Oggi parla della guerra con lo stesso spirito, definendola un male, da cui può nascere il bene. Dalla distruzione inizia la costruzione che da lavoro alle persone e gli permette di iniziare il nuovo mondo (il paragone con il giorno in cui gli hano svaligiato e vandalizzato casa, era calzante).
Ci ha narrato una vita interessante e vissuta con intensità. Dagli studi a Tokyo a quando, prima di partire per Parigi, scopre la scultura di Marino Marini e decide di volerlo incontrare, modificando la sua borsa di studio all'estero, dirottandosi verso Milano, si intuisce che la storia sarà lunga e interessante. A Milano incontra Marini e ne diviene l'allievo prediletto. In Marini trova un vero maestro zen che lo indirizza e lo stimola.
Tante volte ho riletto gli appunti che ho preso durante la lezione e ancora li rileggo.
Ha parlato della necessità di non arrendersi e di come, a 85 anni suonati, studi ancora matematica e italiano, perché "non bisogna mai smettere di studiare".
Nel suo racconto di una vita eccezionale ha accennato dell'incontro con personaggi di primissimo piano del XX secolo, di fatti personali e della sua visione del mondo, che riversa nel suo concetto di arte. Arte di un uomo che è chiaramente un milanesone (seppur) d'importazione, certamente un fiero giapponese, ma alla resa dei conti è un vero cittadino del mondo.
Presto o tardi dovrò trarre qualcosa da quegli appunti, su cui contesto solo la visione che il maestro ha della poesia....
Non è facile raccontare l'intensità del momento né il magnetismo che quell'uomo irradia, nel suo essere la perfetta sintesi tra l'occidente individualista e l'oriente unitario, tra l'arte dell'impermanenza e del legno contrapposta all'arte eterna della roccia.
Ovviamente, domenica ero in centro e ne ho approfittato per vedere una sua opera, in piaza Cordusio (tediando Sara con la descrizione di quelle panchine di roccia).
Giunto alla sua veneranda età, parla ancora di speranza, di imparare e andare avanti, tramite il suo pensiero di chiara matrice taoista e zen. Un'arte di cui ho apprezzato un'idea legata alla scelta dei materiali e delle forme, applicata alle sculture che pensate per una data piazza "osservo la piazza e cerco di capirla, quindi scelgo il materiale adatto per creare qualcosa che vada in quell'ambiente. Non ha senso creare nell'atelier e poi portare all'aperto, perché non sarebbe più la piazza, ma lo scultore che si mette nella piazza".
Un uomo da cui imparare molto che ha riassunto la sua filosofia di vita in due sole parole che, come tutte le grandi affermazioni, sono semplici, inattaccabili e talmente scontate da non essere viste dall'uomo comune: "coraggio e pazienza".

Marco Drvso

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