martedì 31 agosto 2010

Il nuovo corso

La differenza fondamentale tra uno statista e un politico è nel modo di ragionare. Lo statista prende decisioni impopolari per il bene del paese, anche se queste possono stroncarne la carriera politica; il politico si preoccupa dei voti, quindi non farà mai nulla che possa risultare impopolare. Un esempio di ciò lo si può vedere nel momento di crisi che stiamo attraversando.
Un vero statista avrebbe ammesso l'esistenza del problema e avrebbe cercato di porvi rimedio, almeno 2 anni fa. I politici, invece, hanno negato tutto fino all'ultimo, per poi correre ai ripari in pompa magna, proponendo soluzioni che sono peggio del male stesso. In tutto ciò, la questione che sarebbe più ridicola, se non ricadesse sulle teste di tutti noi, è il loro continuo parlare di ripresa.
Che vivano su un altro pianeta è ormai cosa nota, ma non posso credere che, realmente, credano nelle cretinate che ci propinano quotidianamente.
In questi mesi sto assistendo alla disintegrazione del ceto medio e della piccola borghesia, ormai appiattite al livello delle classi meno abbienti. Mi riferisco a professionisti e dirigenti falcidiati dalla crisi che si ritrovano a fare i conti della quarta settimana. A questi si aggiunge la folla dei salariati e dei ceti meno abbienti che lottano per la sopravvivenza. Chi possiede una casa di proprietà cerca di venderla per andare avanti e chi non la possiede va ad ingrossare le fila degli sfratti per morosità o dei pignorati per mancato pagamento del mutuo da strozzino che le banche hanno "concesso" negli ultimi giorni delle finte vacche grasse. C'è una moria di piccole aziende, la linfa del paese, in un momento in cui trovare lavoro da dipendente (giustamente retribuito) è diventata una utopia. Piccole realtà produttive che sono schiacciate tra banche, mancati pagamenti, crollo del lavoro e lo stato, con i suoi sordi studi di settore, preparati da emeriti incapaci.
Gli unici che festeggiano sono i potentati che si ritrovano tra le mani schiere di disperati, pronti a spezzarsi la schiena per un tozzo di pane, mandando in vacca un secolo di lotte per i diritti dei lavoratori.
Non mi interessa discutere sul come ci siamo arrivati, né additare banche e governi quali i soli artefici di questo disastro (oltre a noi pirla che li abbiamo lasciati fare), a questo punto è tardi e bisogna cercare una soluzione che non contempli i deliri del fondo mondiale e delle banche.
Volendo, si potrebbe porre soluzione al problema con una gestione oculata del poco denaro in circolazione, investendolo in grandi opere realmente utili. Tranquilli: non mi riferisco a puttanate tipo ponte sullo stretto o nuovi quartieri residenziali pieni di case sfitte. Parlo di iniziare a rimettere a posto il paese dal punto di vista geologico, idrogeologico e naturalistico. Così, ad occhio, ci sarebbe lavoro per i prossimi 70 anni.
Si potrebbe rivedere l'impianto industriale, passando oltre la logica consumistica che ci ha condotto fin qui, tornando all'idea di un prodotto che dura anni e che sia possibile riparare (ovviamente, un cellulare dovrebbe costare minimo 300€).
Riattivare un settore, quello dei servizi, che ormai è (a livello economico) il settore primario e potenziare al massimo il settore primario del paese: agricoltura e allevamento, da anni agonizzanti. Con questo punto è chiaro che immagini una deriva autarchica, in cui ogni area del mondo debba provvedere al proprio benesse primario e successivamente organizzare i commerci con le altre aree (benvenga il commercio e la circolazione di manufatti e prodotti esteri, a patto che ciò non crei dipendenza tra gli stati). In particolare bisogna pensare all'auto produzione di cibo e energia, fondamentali affinché una nazione sia libera.
Questi sono solo esempi e linee guida che potrebbero portare alla soluzione, ma potrei elencarne altre decine, comprese battaglie che altri stanno portando avanti, come il sacrosanto mutuo sociale.
Per ottenere tutto ciò, però, è necessaria una rivoluzione culturale. Bisogna superare la logica consumistica e ritornare a ragionare come i nostri nonni che spegnevano la luce quando non serviva, grattavano la crosta del formaggio fino all'ultimo (se poi è parmigiano, le croste sono meravigliose per fare il risotto), non si ingozzavano di cibi provenienti dall'altra parte del mondo, si facevano durare tutto il più possibile (rammendando abiti fatti come si deve, ad esempio) e mettevano via i soldi per i giorni di pioggia.
È duro tornare indietro, ma è la sola possibilità per sopravvivere e schivare la guerra sociale che si profila all'orizzonte.

Marco Drvso

1 commento:

peregrina_desafinada ha detto...

si sono d'accordo. tornare indietro per andare avanti. sarà il titolo di un mio prox post. ciao. s.